Di Mimma Sparacino e Francesca Lo Medico
“Nativi digitali”? “Generazione Touch”? “Internet rende stupidi”?
Idee e dubbi che naturalmente vengono in mente quando vediamo, come sempre più spesso accade, bambini anche molto piccoli utilizzare con disinvoltura tablet e smartphone.
Lo schermo tattile ha consentito un accesso indubbiamente facilitato dei bambini alle tecnologie rispetto al passato – l’uso del computer richiedeva alcune competenze di base – e d’altronde i bambini trovano già negli ambienti in cui nascono e vivono questi dispositivi.
È evidente a tutti come l’uso di tablet e smartphone sia ormai molto diffuso presso tutte le fasce d’età e fasce sociali della popolazione e come il fenomeno sia in aumento e sembra aumentare di conseguenza la consapevolezza della necessità di sapere gestire i cambiamenti che ne derivano.
Stefano Rodotà, il giurista che per primo si è occupato in Italia della necessità di legiferare su internet, aveva ben evidenziato l’incidenza del cambiamento apportato nella vita dei singoli e nella società dalla diffusione delle nuove tecnologie, affermando che queste cambiano il quadro dei diritti civili e politici, influenzano i rapporti personali e sociali e l’antropologia stessa delle persone.
Tralasciando altri aspetti a noi interessa interrogarci sul rapporto tra bambini, adolescenti e tecnologie per cercare risposte alle legittime domande che genitori e educatori si pongono sia in termini di codici di comportamento che di conoscenza dei pericoli.
In verità le opinioni sono spesso nettamente contrastanti: ai sostenitori senza alcun dubbio dei benefici delle tecnologie e del loro uso già nella prima infanzia si contrappongono coloro che sono decisamente contrari.
Non raramente però le opinioni sembrano prese aprioristicamente e in modi acritici; cosi, ad esempio, in ambito scolastico abbiamo assistito in questi anni ad un facile entusiasmo sulle tecnologie, esaltate quasi fossero in grado da sole di trasformare l’insegnamento, modificare l’acquisizione del sapere – ritenuto antico – e riformare la scuola avviandola ad un glorioso futuro. Di contro chi si è opposto spesso lo ha fatto facendo appello solo ad un nostalgico passato, alla carta stampata e al profumo dei libri.
Anche in ambito più scientifico il dibattito vede spesso posizioni nettamente contrapposte.
Chi ha coniato l’espressione “nativi digitali” (M. Prensky, 2001) ha voluto definire una generazione nata e cresciuta insieme a internet e che sa usare in modo intuitivo le tecnologie.
Molti hanno visto nella nuova generazione sempre connessa quasi la nascita di una nuova specie, in grado, proprio in virtù dell’uso – quasi naturale – dei mezzi, di affrontare situazioni e problematiche secondo nuovi modi di comportamento.
I “nuovi bambini” (P. Ferri, 2014), gli studenti di oggi sarebbero in grado di gestire l’informazione e la comunicazione in modo del tutto nuovo, avrebbero sviluppato, grazie alla plasticità neurale del cervello, una nuova forma di intelligenza.
Se l’evidenza scientifica della nascita di una nuova specie non è così certa, tuttavia non si possono mettere in dubbio i cambiamenti che avvengono negli individui che per molto tempo interagiscono con i nuovi media.
I cambiamenti relativi all’ambiente e ai comportamenti sono da tutti constatabili: pensiamo ad esempio alla tendenza a mentire di più usando internet, a usare un linguaggio assolutamente non controllato, talora pure gravemente offensivo, come dimostrano molti casi di cronaca degli ultimi tempi.
Ma se si parla dei cambiamenti sul cervello, sul modo di pensare, allora solo psichiatri e studiosi di neuroscienze possono esprimersi.
Molti hanno visto conseguenze negative: i cervelli costantemente connessi non sarebbero in grado di creare connessioni neurali tali da dare profondità al pensiero. Diminuisce sensibilmente l’attenzione, la capacità di pensare e anche la memoria. Lo psichiatra M. Spitzer giunge a parlare di demenza (Demenza digitale, 2013), quasi una malattia che provoca appiattimento emotivo e danni alle capacità cognitive.
Secondo lo studioso stare connessi per molto tempo – in Germania i sedicenni passano 7 ore al giorno davanti allo smartphone e in Corea del Sud anche di più – provoca effetti non solo di dipendenza simile a quella delle droghe, maggiore isolamento e ridotta capacità di empatia, ma anche seri danni cerebrali.
Riguardo l’insegnamento Spitzer pensa che i ragazzi non imparano meglio attraverso i computer “quando si ha un’attività mentale esterna, questa non prende posto all’interno del cervello; mentre è proprio quell’attività a coincidere con l’apprendimento, altrimenti non si impara; se non si allena la specifica area del cervello si diventerà molto meno in grado di imparare”.
Quindi più ci soffermiamo su un elemento da apprendere meglio lo ricorderemo e impareremo; l’uso di media digitali e il multitasking connesso non aiutano quest’attività, anzi scoraggerebbero lo studio e l’apprendimento.
Può pertanto cambiare molto il modo di vedere l’utilizzo dei media nei sistemi scolastici ed educativi: di grande aiuto all’efficienza, all’incremento e miglioramento dell’apprendimento – si pensi anche all’utilizzo in caso di soggetti con difficoltà di apprendimento – oppure di nessun aiuto, anzi quasi di ostacolo.
Per aiutare a capire, offrire spunti di riflessione avremmo pensato di organizzare un breve convegno, una giornata di studi, rivolta a genitori, educatori, insegnanti che ancora si interrogano sul ruolo che possono svolgere nel mediare l’uso delle tecnologie perché siano di aiuto allo sviluppo e all’apprendimento.
ArsDiapason Palermo
Leggi anche:
il testo analizza in modo approfondito vantaggi e limiti delle tecnologie e sono convinto anc’io che tutto dipenda da un “buon uso” all’interno di una prospettiva curriculare che consideri alla pari programmi essenziali e attenzione e tempo alla relazione.
Non nascondo che chi, come me, è minimamente tecnologico tenda ad evidenziare gli aspetti negativi ben descritti nel testo e chi invece domina agevolmente la materia sia più portato a valorizzarla (si tratta di due variabili che devono essere attentamente tenute presenti).
Interessantissimo quindi la proposta di un convegno che focalizzi il problema.
Per aggiungere, come dice un vecchio detto piemontese “ferro alla campana” (probabilmente per avere un suono migliore) aggiungo a Spitzer alcuni altri commenti utili alla riflessione:
– R.Simone e U. Galimberti (La repubblica del 12/1/2012 e “D” di La Repubblica del 17/3/2012). De Simone evidenzia un possibile rischio della cultura digitale: “è uno dei più temibili moventi di interruzione della concentrazione che si siano mai presentati nella storia, e si sa quanto la concentrazione sia cruciale nell’apprendimento”. Galimberti ci ricorda come Clifford Stoll, che dal 1975 ha contribuito a far diventare la rete un fenomeno mondiale, trent’anni dopo, a proposito dell’informatizzazione della scuola abbia scritto: “un computer non può sostituire un buon insegnante. Cinquanta minuti di lezione non possono venire liofilizzati in quindici minuti multimediali”.
– sempre Galimberti (in D di La Repubblica del 26/7/2014): “temo che l’informatica modifichi la nostra intelligenza, rendendola sempre più “convergente”, quando la storia è sempre andata avanti grazie alle intelligenze “divergenti”.
– (Venerdì di Repubblica 16/12/2015) il pedagogista A.Scotto: “l’introduzione di strumenti tecnologici nella didattica aiuta a migliorare l’insegnamento?. I ragazzi imparano meglio davanti a un video che con i mezzi tradizionali?. C’è una domanda ancora ancora più di fondo: La scuola serve a insegnare delle competenze che aiutino a inserirsi nel mondo del lavoro? Oppure a far crescere cittadini consapevoli dei loro diritti-doveri, muniti di una base indispensabile di conoscenze?” . La risposta dell’autore è netta: “ciò che fa buona una scuola no è la quantità di elettronica ma la qualità dell’insegnamento – meglio, degli insegnanti
– in un’intervista a Nicolas Carr, autore del libro “Internet ci rende stupidi?” (La Repubblica dell’8/5/2016) Carr ci dice: “Oggi giriamo con lo smartphone e viviamo sui social network … è un problema grave … il nostro cervello è malleabile ; se viene bombardato da distrazioni e interruzioni continue si adatta di conseguenza … siamo sempre più in balia del flusso delle informazioni, più distratti che mai. L’attenzione diventa frammentaria, siamo meno capaci di riflettere e di pensare in profondità … Non è l’informazione a renderci stupidi, ma l’intensità con cui siamo gettati nel flusso. L’intelligenza non è solo trovare informazioni rapidamente ma la capacità di attribuirvi un senso”
…e potrei continuare citando altri esperti..per ora chiudo con un’incisiva battuta di Steve Jobs (La Repubblica del 31/12/2017): “Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate”