a cura di Emilia De Rienzo
Ognuno di noi nel proprio correre disordinato non ricalca mai le stesse orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso.
“La vita è tracciata da passi umani sul terreno dell’imprevedibilità e della contingenza. Fragile ed esposto l’esistente appartiene ad una scena mondana dove l’intreccio con gli altri esistenti è impadroneggiabile e potenzialmente infinito. Come nelle Mille e una notte, le storie si intrecciano con le storie. Ma isola nella chimerica completezza del suo senso, una non può stare senza l’altra”
Così dice la filosofa Adriana Cavarero e nella sua concezione, ogni essere umano è diverso da tutti quelli che vissero, che vivono e che vivranno, ma non per questo è separato da qualsiasi altro. Anzi, la relazione con l’altro è necessaria e ognuno ha bisogno di essere riconosciuto proprio nella sua unicità.
Chi ciascuno è, lo rivela agli altri quando agisce al loro cospetto su un teatro interattivo dove ognuno è, al tempo stesso, attore e spettatore.
Oggi è sempre più difficile trovare luoghi e spazi in cui parlare, in cui ognuno sappia ascoltare l’altro e l’altro possa “raccontarsi”, ma il desiderio che anima chi racconta se stesso è quello di veder riconosciuta la propria esistenza da parte del destinatario del suo racconto.
Per questo noi offriremo, nel prossimo autunno, uno spazio dove incontrarsi e parlarsi, dove raccontare e raccontarsi, dove imparare un’arte che va perdendosi: la capacità di narrare, la capacità di esprimersi, di parlare dei propri sentimenti e stati d’animo.
Come ha detto lo scrittore Antonio Tabucchi in una recente intervista:
“Se perdessimo definitivamente la capacita di narrare non riusciremmo più a vivere dentro noi stessi, la vita diventerebbe un caos completo, una grande schizofrenia in cui esplodono come in un fuoco di artificio i mille pezzi delle nostre esistenze, perché, per ordinare e capire chi noi siamo, dobbiamo raccontarci”.
“L’uomo è diventato “civile”, ha inventato se stesso e ha inventato la Storia, ha imparato a vedersi e a capirsi quando ha imparato a raccontarsi, anche in una maniera molto semplice, molto primitiva con le rappresentazioni artistiche e pittoriche delle grotte. L uomo è entrato nella civiltà che conosciamo quando ha imparato il racconto”.
Il racconto di sé esprime un’esigenza profonda: quello di essere riconosciuti nella propria storia qualunque essa sia, di essere riconosciuti come soggetti. E il racconto può dipanarsi con la parola, con la poesia, con la pittura…
Non è in gioco semplicemente la volontà di stabilire un contatto con altri, ma più profondamente quella di condividere il proprio mondo, di sentire riconosciuta la propria voce e, con questa, la propria esistenza e la propria sensibilità: un riconoscimento che è il contrario del disprezzo, o di quella forma particolare e sottile di svalutazione degli altri che consiste nel non prestar ascolto agli altri.
Il prestar ascolto è un impegno etico: è il riconoscimento che dà dignità, che attribuisce un valore all’altro.
Imparare a raccontare vuol dire imparare a comunicare, ma trovare uno spazio in cui questo sia possibile, trovare un luogo dove parole e pensieri non si dissolvano alla presenza dell’altro.
Ogni storia ha il suo valore e insegna qualcosa a chi la vuole ascoltare, e il suo significato quando altri vogliono capirlo prende il volo e si trasmette lasciando i suoi semi… Questo è un modo per rompere la solitudine…
Mi viene da pensare sul fatto che viviamo in un mondo tecnologico e “interattivo”; ma la vera interazione avviene maggiormente tramite social network dove ognuno è chiuso nel proprio mondo a parlare di sé.
Abbiamo perso il desiderio gustare le parole che escono dalla nostra bocca e che ritornano a noi mediamente l’ascolto di una dolce melodia chiamata: “dialogo faccia a faccia”. Paola