C’è chi
C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
E’ tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.E’ lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.
Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel trita documenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.
Pensa quel tanto che serve,
non un attimo di più,
perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.
E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.
A volte un po’ lo invidio
– per fortuna mi passa.
(W. Szymborska)
Mi capita spesso di trovarmi di fronte a persone che hanno certezze ferree, indiscutibili. Mi capita di sentire scambiare per dialogo l’accostamento indiscutibile di un’idea contro un’altra, e quando l’idea di cui si è sostenitori non passa, allora la discussione si interrompe ed ognuno si chiude nella propria camera blindata.
In realtà se qualcuno dei cosiddetti “dialoganti” fosse sottoposto al metodo socratico, quindi a dare semplicemente spiegazioni su quanto viene da loro asserito con forza e convinzione, potrebbe capitare che non saprebbe andare avanti nella sua dissertazione o al più direbbe “E’ così e basta. Perché? perché lo so.”
Mi chiedo perché tanta paura di ammettere la propria ignoranza, o di ascoltare ciò che l’altro ha da dire. Mi chiedo perché chiudere in una gabbia la propria mente, colmarla di pregiudizi, di risposte per tutte le occasioni, di giustificazioni senza fondamento, di ricette preconfezionate.
Ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Se l’uomo non avesse mai pronunciato queste domande, nulla di nuovo sarebbe stato scoperto, nulla di nuovo sarebbe mai stato vissuto. La poetessa W. Szymborska dice di apprezzare due piccole paroline: non so. “ Piccole, ma alate”.
Anche l’insegnante quando accosta ogni suo alunno deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Di fronte ad ogni problema si cerca di dare una risposta, ma, quando si pensa di averla trovata, ci si rende conto che si tratta d’una risposta provvisoria e sempre insufficiente. Perciò si prova ancora una volta e un’altra ancora, ogni giorno, ogni momento in una continua ricerca della relazione che caratterizza il nostro essere maestri. Perché solo così si può andare incontro alla diversità che abita ogni alunno, che abita ognuno di noi.
Ed è proprio questo incontro, questo imparare ogni giorno dalla relazione continua che rende il lavoro dell’insegnante straordinariamente ricco di vita, di sorprese e di scoperte, è questo essere continuamente “in ricerca” che ci tiene lontano da pregiudizi e luoghi comuni.
Nel parlare comune, che non riflette sulle parole, tutti usiamo i termini: “mondo normale”, “normale corso delle cose”… Tuttavia nell’incontro con i nostri alunni scopriamo ogni giorni che non c’è nulla di “normale”. Come dice W. Szymborska, nel mondo non è normale: “nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo”.
Tutto è diverso da tutto e tutto ci offre qualcosa di irriducibilmente suo e di nessun altro.
Forse è difficile entrare in questa logica in un mondo che ci abitua alla semplificazione e alla banalizzazione, ma soprattutto alle generalizzazioni che incasellano e imprigionano non lasciando spazio alla nostra unicità.
In un mondo in cui il rumore prevarica ogni pensiero è importante ritrovare dentro di noi il silenzio.
Il silenzio è una maniera di significare che non so tutto, (…) che sono disponibile ad ascoltare l’altro e la sua verità che io lo incoraggio a vivere, a coltivare, a esprimere senza sottometterla alla mia. Fare silenzio dentro di noi vuol dire aprirsi all’ascolto, a quello che viene dall’altro di cui devo tener conto e avere rispetto se voglio davvero relazionarmi con lui.
Ed invece capita sempre più spesso che ognuno di noi parli prima ancora che l’altro abbia finito il suo discorso.
Abbiamo paura di incontrare le sfaccettature molteplici della realtà e delle persone, perché abbiamo paura prima di tutto di incontrare noi stessi nella nostra fragilità in un mondo che ci chiede “di essere forti”, sempre “all’altezza”, che è indifferente a chi soffre e a chi non è più “una risorsa” per un mondo dove vige la legge che vince chi riesce a schiacciare l’altro.
In definitiva abbiamo paura di incontrare la fragilità che è in noi, di entrare in contatto con quel qualcuno che sta dentro di noi, e che è stato troppo inascoltato.
A questa legge dobbiamo opporre ovunque, a scuola, nella famiglia, nella vita di tutti i giorni, sempre il “NO, io non ci sto”. Dobbiamo imparare a credere che ciò che è “im-possibile” per altri è invece la nostra strada, e l’im-possibile, quindi il cambiamento non trova spazio là dove si vive solo di certezze e verità assolute.
Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so” sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca.
Dal discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel da Wisława Szymborska,1996
Mi è molto piaciuto il commento di Emilia alla poesia “Due Parole piccole, ma alate”. E’ l’ammissione del nostro non sapere, dei nostri limiti, a spalancarci le porte della conoscenza.
Pochi giorni fa, alla radio, un ascoltatore esprimeva queste definizioni a proposito delle persone colte e di quelle ignoranti: “La persona colta, quando si imbatte in qualcosa che non sa, si da da fare per colmare le sue lacune, legge e si documenta. Quella ignorante, di fronte ad na cosa che non sa, TE LA SPIEGA…..”