Due giorni fa, 20 novembre, come accade da che ho memoria, è stata celebrata la giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvati dall’ assemblea generale dell’ONU con la Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo del 1989.
Nelle diverse voci, che ne hanno sottolineato l’importanza, ancor più rilevante nel tempo angoscioso che da ormai troppi mesi stiamo vivendo a causa del virus Covid 19, ho notato una reale preoccupazione per i danni arrecati dalla pandemia ai nostri bambini, ragazzi, ai nostri giovani.
E’ sempre facile cadere nella retorica quando si tratta di ricordare, commemorare eventi, ricorrenze, una data particolare, la promulgazione di una legge particolarmente significativa…
Non quest’anno, oso dire, poiché riscontro minore enfasi nei discorsi ufficiali dei rappresentanti delle più alte cariche dello Stato.
Il covid impegna a riflessioni meno rituali. Mi riferisco soprattutto al discorso, pacato e puntuale del nostro Presidente della Repubblica che ha affermato:
“La Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza quest’anno assume un particolare significato in presenza di una pandemia che a livello globale produce un forte impatto proprio sui più fragili e a rischio di discriminazione e violazione dei diritti. Superando ogni confine, il virus sta minando il futuro delle prossime generazioni“… “I bambini, come gli adulti, a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19 devono affrontare cambiamenti importanti nel loro quotidiano, possono risentirne perché ansia e preoccupazione possono colpire anche i più piccoli. La sfida che dobbiamo affrontare è quella di infondere ai nostri giovani serenità informandoli su ciò che avviene nel mondo e preservarli dall’inquietudine”. “Prioritario, ancora di più oggi, è tutelare i più piccoli, coloro che vivono in contesti familiari di disagio o con disabilità e che hanno bisogno di assistenza che non sempre le famiglie sono in grado di assicurare”. Lo stato di salute dei più piccoli e degli adolescenti “è influenzato dal contesto sociale in cui vivono. Bisogna quindi intervenire con determinazione per non far sentire soli i bambini e i giovani, per annullare ogni forma di disparità e consegnare un mondo migliore e più responsabile alle generazioni future” (tratto da RAI NEWS 20/10/2020)
I dati sulle condizioni di vita, sui livelli di istruzione dell’infanzia e dell’adolescenza nel mondo ancor prima della pandemia sono impressionanti. Ne riferiscono siti ufficiali dei nostri ministeri, di Unicef, Save the Children e diverse agenzie educative… Unanime è la preoccupazione per gli esiti futuri così come la sottolineatura dell’urgenza di interventi mirati, coordinati ed efficaci. Personalmente ne avevo scritto nel 2005, riportando alcuni dati già allora impressionanti, per la presentazione di una mostra su “L’infanzia rubata” allestita dal comune di Alpignano.
Per avere un’idea della situazione all’oggi, mi affido ad alcuni dati e considerazioni di Save the Children.
“…Nel mondo ogni anno un miliardo di minori tra i 2 e i 17 anni è vittima di violenza fisica, sessuale o psicologica, 12 milioni di ragazze si sposano prima dei 18 anni con uomini spesso molto più grandi di loro, 85 milioni di bambini e ragazzi sono coinvolti in pericolose forme di lavoro minorile. In Italia il 13,5% abbandona la scuola prima del tempo. Tutto questo è spesso legato a quella povertà che affligge il presente e che ruba il futuro, colpendo almeno 586 milioni di bambini nel mondo, numero che potrebbe aumentare vertiginosamente, rischiando di lasciare entro la fine dell’anno 150 milioni di bambini in più, uno su tre in tutto il pianeta, senza cibo sufficiente e accesso a beni e servizi essenziali. Queste previsioni critiche non risparmiano nemmeno i Paesi più benestanti, come l’Italia, che entro il 2020 rischia di vedere un aumento di un milione di bambini in condizioni di povertà assoluta, che andrebbero ad aggiungersi agli oltre 1.100.000 dell’anno scorso.
E’ l’allarme lanciato da Save the Children che sottolinea che quella evidenziata è la fotografia della situazione prima della pandemia, ma oggi il quadro è ancora più fosco, con i principali indicatori al rialzo, perché l’impatto del virus sta esacerbando le disuguaglianze esistenti e condannando una generazione di bambini…
La chiusura delle scuole in seguito al coronavirus, ad esempio, ha riguardato quasi il 90% di tutti gli studenti nel mondo, dove un giovane su tre non ha accesso al digitale e alle nuove tecnologie, e circa 10 milioni di loro rischiano di non tornare più tra i banchi, con tutto quello che ciò comporta, in termini di maggiore esposizione a rischi di subire violenze e sfruttamento, di essere costretti ad andare a lavorare per aiutare le famiglie o di sposarsi prematuramente rinunciando così alla propria infanzia, mettendo a repentaglio la propria salute e rinunciando alla possibilità di costruirsi un futuro a misura dei propri sogni e talenti…”(RAI NEWS).
Dati e considerazioni decisamente inquietanti, che fanno da sfondo a un pensiero che vorrei sviluppare.
Ciò che in questo momento mi assilla, come nonna, ex insegnante e dirigente scolastica, è comprendere se le risposte che la scuola dei diversi ordini ha messo in atto sono efficaci e in quale misura, se il tempo “perduto” dai nostri studenti durante i tanti mesi di chiusura potrà essere “recuperato”; mi interessa comprendere cosa produce la pandemia nei nostri bambini, ragazzi, giovani. Le domande che mi pongo sono di questo tenore:
Come la pandemia sta influendo sulla crescita?
Come e se il loro diritto all’istruzione e alla salute fisica e mentale viene garantito?
Quali “strascichi” potremmo ritrovarci a gestire nel prossimo futuro in aggiunta ai problemi cronici della scuola italiana?
Tento ora di esprimermi con un diverso registro comunicativo, partendo da ciò che osservo in modo diretto. Restringo il campo della mia analisi.
Vorrei perciò raccontare dei miei nipotini: di Pietro di anni quattro e di Chiara prossima ai nove anni.
Pietro ha iniziato la scuola dell’infanzia nel settembre 2019 ed ebbe un difficile inserimento. Era determinato a restarsene a casa sua, dove poteva godere a suo piacimento di un cortile dove giocare, di nonni vicini molto accudenti, di genitori solleciti e attenti alla sua crescita.
I suoi pianti erano sentiti in tutta la scuola. Alcune volte si è rivolto in lacrime ad altri nonni, presenti al momento dell’ingresso dei bambini, per essere riaccompagnato a casa. Con l’impegno di tutti noi familiari e delle stesse insegnanti l’inserimento avvenne…ma proprio nel momento in cui la sua frequenza iniziava ad essere “produttiva” sotto ogni aspetto, in particolare quello relazionale, arrivò il covid19, la chiusura, e la didattica a distanza. Questa una “beffa”, una proposta assurda, inconcludente per bambini di tre, quatto, cinque anni. La fatica per fargli colorare le schede che venivano inoltrate via mail erano senza senso.
E vengo a Chiara bambina dolce, sensibile, curiosa e desiderosa ed intenzionata ad apprendere, con spiccate capacità artistiche. Da sempre contenta di andare a scuola. Mai una volta che abbia detto di essersi annoiata… ma anche per lei arrivò la didattica a distanza…
Non ho detto, cosa fondamentale, che entrambi i suoi genitori già a marzo si ammalarono di covid19, fortunatamente in forma non grave anche se dovettero sopportare un lockdown durato quasi tre mesi poiché il papà risultava continuamente positivo.
Per certi versi fu una fortuna per i bambini costretti a casa, poiché potevano godere della loro presenza, ma è pur vero che, superata la fase più acuta della malattia, erano impegnati con lo Smart Working e quindi la didattica a distanza richiedeva loro un’aggiunta di fatica, dovendo seguire Chiara durante gli incontri virtuali, che duravano un’eternità, per consentire a ogni bambino di poter dire qualche parola di sé e delle diverse consegne che venivano date loro dalle insegnanti, e nell’esecuzione stessa dei compiti assegnati. Chiara si annoiava non poco e nello stesso tempo rifletteva sulla condizione che stava vivendo fino ad esprimere il suo disagio in una lettera scritta alle sue insegnanti e ai suoi compagni dove lamenta che con la DAD non si possono fare domande…non ci si può guardare negli occhi… pur riconoscendo l’impegno delle sue maestre.
La condizione di Pietro e di Chiara è stata per molti versi privilegiata: spazi a disposizione, dotazioni informatiche in casa sufficienti, adulti disponibili.
Hanno affrontato la situazione nelle migliori condizioni possibili: Pietro in cortile con bastoncini vari rimestava con foga la ghiaia per “uccidere il virus”, Chiara ne scriveva raccontando storie, esorcizzando così la sua paura del contagio, che alcune volte si è manifestata nei suoi sogni angosciosi, e immergendosi nella lettura di libri avvincenti.
Da settembre sono tornati a scuola. Fortunatamente Pietro ha ben reagito, sicuramente desideroso di poter giocare con i suoi compagni. Non è stato facile accettare regole ancor più rigide dell’anno precedente, ma ce l’ha fatta.
Chiara era entusiasta di rivedere i compagni e le insegnanti. Poco le importava di usare la mascherina per le otto ore di scuola. Ciò che contava era stare a scuola, in presenza, guardandosi negli occhi, poter chiedere una spiegazione se non avevi capito…ma l’entusiasmo iniziale è durato poco. Una delle due insegnanti si è ammalata di covid19, l’altra era ancora da nominare. Così ai bambini è venuta a mancare la figura “stabile”; forzatamente si sono dovuti adattare a un susseguirsi di supplenti e, per una intera settimana, alla riduzione del tempo scolastico alla sola mattinata.
Per giorni e giorni è uscita da scuola con il mal di testa e molto arrabbiata con alcuni suoi compagni che, come spesso capita con insegnanti alle prime armi o non particolarmente dotate per l’insegnamento, hanno approfittato della situazione per creare scompiglio, per sottrarsi all’uso delle mascherine, per sbeffeggiare i compagni e via di seguito.
Finalmente la situazione da alcuni giorni si è normalizzata.
Ma perché parlo dei miei nipotini proprio in concomitanza con la giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza?
Se si riprendono le parole del nostro Presidente, se ne comprende il senso.
Mi sono spesso domandata, in questi lunghi mesi, quale potesse essere l’incidenza delle tante restrizioni imposte e pur necessarie sulla formazione dei nostri bambini e dei nostri adolescenti e come le diverse situazioni familiari influissero nel sostenere o nell’acuire le situazioni di disagio, le difficoltà sociali e relazionali, le disabilità, gli apprendimenti scolastici. Difficoltà economiche, spazi ristretti, tensioni familiari preesistenti e ampliate dalla convivenza forzata, mancanza di computer per la cosiddetta DAD sono fattori determinanti nel favorire discriminazioni sociali, ampliando i gaps già esistenti.
Ho avuto di recente una discussione, virtuale ovviamente, con un’amica, insegnante di scuola dell’infanzia, proprio sui danni che la pandemia provoca sui più fragili. Lei si affida alla capacità dei bambini di adattarsi alle diverse situazioni, io sostengo che, aldilà delle capacità di adattamento soprattutto dei più piccoli, incidano negativamente, molto o poco sempre da verificare, ad ogni età sul piano emotivo, affettivo, relazionale, cognitivo.
Spero vengano avviati studi approfonditi in merito. Occorre infatti verificare l’efficacia della DAD, comprendere come l’apprendimento a distanza possa consentire l’acquisizione di conoscenze e saperi “forti”, capacità riflessive e critiche, come e in che misura possa integrarsi con la didattica in presenza, non rinunciabile, poiché la scuola è anche contatto, incontro di corpi, di menti, di sguardi, di confronto, di dialogo…
In termini più generali dovremmo approfondire non solo come si formano le conoscenze ma quali, oggi e già domani, sono necessarie per affrontare il futuro. Bastano “I sette saperi necessari all’educazione del futuro” proposti da Edgard Morin, grande filosofo e teorico della complessità? Formare “Una testa ben fatta in una società dell’accoglienza. Conoscere, valorizzare, includere” è il suo appello rivolto agli educatori: questione aperta.
Per il momento mi affido alla mia esperienza, a ciò che ho imparato come insegnante e come dirigente scolastica. E torno al mio campo di osservazione-riflessione.
E penso quindi ai nostri bambini che sopportano per otto ore, come i loro insegnanti del resto, la mascherina, che non si scambiamo merendine, penne, matite, gomme, che escono ed entrano distanziati, che vanno in cortile a turno, che captano le stesse notizie che creano insicurezza, paura, angoscia in noi adulti, per lo più senza poterne parlare.
Tutto ciò è ininfluente? Non credo. Penso a Chiara che non sopporta gli atteggiamenti ridicoleggianti e provocatori di alcuni bambini, che hanno trovato paradossalmente un motivo in più per esibirsi e accentrare su di sé l’attenzione di insegnanti e compagni, raccontando anche in questo modo la loro sottaciuta fragilità.
Ma penso anche agli adolescenti per i quali la DAD è forse più congeniale, sempre che i professori sappiano farne buon uso e siano adeguatamente formati. Ma quali effetti produce in loro quest’unica modalità di apprendimento?
Durante la prima fase del lockdown sono stati “eroici”, rimanendo immobilizzati davanti allo schermo del computer per ore, vivendo relazioni esclusivamente virtuali, impediti nella frequentazione dei gruppi di coetanei, alla loro età è di vitale importanza, consentendo loro di vivere rituali che accomunano, socializzare interessi, esplicitare pensieri, emozioni.
Da questo settembre sono tornati alla DAD per la maggioranza delle ore scolastiche. E questo molto probabilmente durerà per tutto l’anno scolastico.
Ma ora torno ad uno sguardo alla situazione mondiale.
Secondo L’UNICEF
“A livello globale, si stima che il numero di bambini che vivono in condizioni di povertà multidimensionale – senza accesso a istruzione, salute, alloggio, nutrizione, servizi igienico-sanitari o acqua – sia aumentato del 15%, o di altri 150 milioni di bambini a metà del 2020. Per rispondere a questa crisi, l’Unicef invita i governi e i partner ad assicurare che tutti i bambini possano imparare, anche colmando il divario digitale, garantire l’accesso ai servizi nutrizionali e sanitari e rendere i vaccini accessibili e disponibili ad ogni bambino, sostenere e proteggere la salute mentale dei bambini e dei giovani e porre fine agli abusi, alla violenza di genere e all’abbandono dei bambini. Inoltre, chiede loro di aumentare l’accesso all’acqua potabile, alle strutture igienico-sanitarie e affrontare il degrado ambientale e il cambiamento climatico, invertire l’aumento della povertà dei bambini e garantire una ripresa inclusiva per tutti, raddoppiare gli sforzi per proteggere e sostenere i bambini e le loro famiglie che vivono in situazioni di conflitto, disastri e sfollamento” (RAI NEWS)
Un appello chiaro, di oggi come di tante altre volte, senza seguiti efficaci e risolutori. Un appello che vale anche per noi, che viviamo nella parte più ricca del pianeta, e tuttavia non esente da sacche di povertà, da condizioni di vita indegne di nazioni cosiddette civili, avanzate e garanti dei diritti fondamentali.
In conclusione, ritornando alla nostra realtà, sulla quale ho indirizzato il mio sguardo, penso di poter affermare che in questi lunghi mesi il diritto all’istruzione e alla formazione dei miei nipotini, e in generale, è stato fortemente penalizzato.
Rimangono aperte le mie domande:
Come ne usciranno i nostri giovani?
Sapranno affrontare i problemi che si ritroveranno sulle spalle a causa di questa terribile pandemia?
Saranno più solidali. Avranno compreso che la cooperazione rende più forti e più capaci di gestire situazioni complesse?
Sapranno prendersi cura di questa sola e unica madre terra?
Che cosa mi aspetto dopo questa riflessione?
Che ai discorsi seguano i fatti secondo le stesse indicazioni che ho appena ricordato.
Le nostre istituzioni, i governi nazionali e sovranazionali vorranno e sapranno accogliere la sfida di una radicale inversione di tendenza?
E noi tutti sapremo assumerci le nostre responsabilità per non lasciare ai nostri giovani un oneroso e gigantesco debito di cui dovranno farsi carico?
Rosa Armocida.