Quattro anni fa le docenti universitarie di training pratico per psicologi si lamentavano del fatto che i nuovi studenti, le matricole, avevano una formazione, preparazione assolutamente inadeguata, sia come conoscenze nozionistiche, sia come capacità di discutere, di affrontare una tesina con un minimo di coerenza; addirittura lamentavano il fatto che non sapessero fare neppure una ricerca bibliografica.
La richiesta di queste matricole ai docenti era una richiesta di essere seguiti, di essere capiti, perché il professore non li capiva, non stava loro dietro. E quindi si presentavano apparentemente come immaturi.
Come mai un risultato così sempre più accentuato in chi esce dalla scuola? Vuol dire che tutto il percorso della scuola non ha abituato a sufficienza a pensare con un pensiero autonomo e ha mantenuto un bisogno di dipendenza dal pensiero e dal giudizio dell’altro.
Io credo che non sia un bene, per la società, vedersi sfornare tutti gli anni milioni di giovani potenzialmente dipendenti, che non si fidano del loro pensiero se non in termini di rivendicazione affettiva. Poi ci stupiamo dell’aumento, negli ultimi anni delle tossicodipendenze, dei suicidi giovanili, della dissocialità, della violenza. Alla base di questi problemi cosa c’è? C’è un pensiero dipendente. E il pensiero di dipendenza è il pensiero originario del bambino. Il neonato, e tutta la prima fase dello sviluppo, fino alla prima adolescenza, è immerso nel pensiero dipendente. L’ingresso nell’adolescenza, la costruzione del mondo adulto interno, presuppone il separarsi da qualcosa, aumentare le distanze da qualcosa: la separazione dall’educazione dei genitori, la separazione dell’autorità diretta, l’essere capaci di avere la propria autonomia e autorevolezza.
Ma, se questi processi di separazione sono vissuti in modo eccessivamente angoscioso, tanto che non possono essere attuati o ci si trova in una situazione in cui l’autonomia non viene consentita dai genitori e dall’entourage familiare e sociale, la dipendenza resta immutata.
E ‘ chiaro che così viene interferito il procedere dello sviluppo individuale verso l’età adulta. E di questo siamo responsabili tutti, tutta una società.
Il problema dell’educazione è quello di accompagnare, seguire al meglio la crescita del bambino. Perché se in noi ci sono molte spinte, molti impulsi, sulle modalità dipendenti, è chiaro che instaureremo una relazione in cui offriamo elementi dipendenti. Questo porta anche a criticare il falso concetto di autonomia che molti genitori e la maggior parte degli insegnanti hanno: autonomia del bambino è fargli fare le cose da solo, (la mamma che pretende che si vesta in fretta, che faccia i compiti da solo, l’insegnante che vuole che lavori da solo…). Cioè l’autonomia viene vissuta con i fantasmi del pensiero di chi è dipendente. Allora, una persona dipendente come può immaginare la separazione e l’autonomia? Solo come un fatto drastico, non come una trasformazione graduale. In modo critico, come una scissione. E a questo punto possiamo capire cosa vuol dire “bambino nascosto dietro l’ handicap “. Non è l’ handicap a determinare chi è il bambino. Quello che capita a voi, a me, al bambino sano, al bambino malato è essere un individuo con processi mentali in evoluzione che costantemente consentano al nostro pensiero di passare a stadi diversi di bisogno, di dipendenza, di autonomia. Dove quindi l’autonomia non è far fare le cose da soli, ma è conseguente a questi lenti passaggi trasformativi.
La funzione più competente per noi che ci occupiamo di bambini è quella di essere punti di appoggio, per chi può appoggiarsi, per poi andare da un’altra parte. E saremo noi allora a doverci spostare se vorremo dare ancora appoggio, non è il bambino che deve sempre ritornare da noi.
E questa è la base teorica psicodinamica, che dà più importanza al processo mentale ed all’evoluzione dell’individuo che al comportamento.