Bisogna farli parlare, farli scrivere i ragazzi. Ma devono scoprire la scrittura come un mezzo per esprimersi. All’inizio forse fanno errori, le loro frasi sono confuse e sconnesse, scrivono così come sanno o hanno imparato. Di errori ne fanno tanti, correggerli senza una strategia didattica più complessiva è certo possibile, ma il rischio è che imparino solo quelli che hanno sempre imparato, cioè un numero selezionato di alunni. Esattamente come capitava nella scuola di una volta, che non si poneva il problema di insegnare a tutti, ma di portare avanti solo i “migliori”. Una scuola selettiva, insomma, si partiva in 28 alla scuola media e si finiva in terza in molti, molti meno. Quelli che rimanevano certo erano pronti per le superiori. E la selezione continuava portando i rimasti ben preparati all’università.
Ma la vera scommessa della scuola di oggi, della scuola dell’obbligo, sono proprio gli altri, quelli che “non hanno voglia di studiare”, “quelli che poverini, non ce la fanno proprio”, “quelli che rallentano il ritmo”. Sono anche loro “vuoti a perdere”, ragazzi e bambini che “devono togliere il disturbo”?
Su questi ragazzi negli anni 70 si è lavorato molto, si sono ottenuti molti risultati e commessi anche molti errori. Bisognerebbe avere il coraggio di sedersi intorno ad un tavolo, e tornare alla ricerca iniziata con don Milani, Lodi, Ciari, Freinet, Rodari e tanti altri meno conosciuti, ma ugualmente attivi e preparati. Maestri con la M maiuscola che si sono messi in gioco ed hanno lavorato a “tempo pieno” per rompere quella catena selettiva che metteva ai margini tanti, troppi e aveva voglia di far nascere un’altra scuola, una scuola che fosse veramente democratica. Una pedagogia, un pensiero che cresceva dall’esperienza e dalla passione.
Basaglia ha detto che “la storia della psichiatria è la storia degli psichiatri, non la storia dei malati”, e parafrasandolo questo grande psichiatra, non c’è una storia della scuola vista anche con gli occhi degli studenti. Don Milani che ha provato a raccontarla insieme ai suoi alunni, oggi viene da molti illustri pedagoghi addirittura accusato di essere lui la causa del malessere della scuola: non i ministri, non i cattivi maestri, non la nostra inadeguatezza. Lui, soltanto lui. Una storia tanto assurda che alla fine si commenta da sola.
Dicevo all’inizio che bisogna farli parlare e scrivere i ragazzi, bisogna ascoltarli e restiture dignità ad ognuno di loro, perché ognuno di loro è portatore di storie, valori a cui forse diamo molto poco spazio, perché non ci regalano il tempo per farlo in molti casi, o in altri non ne abbiamo interesse. Ogni storia ha la sua ricchezza, anche quando è fatta di dolore e di sofferenza.
R. è stato un alunno della ex Jugoslavia, emigrato nel periodo della guerra. Un ragazzo chiuso, ma con una grande sensibilità che mi chiedeva spesso di essere lasciato solo a pensare. Nel tempo ha imparato a raccontare la sua storia e lo ha fatto con una passione sempre più crescente. Poi pian piano mi ha chiesto aiuto, voleva rendere bene quello che voleva dire, perché gli altri capissero. Ed ha scritto, scritto, scritto. Ed io allora ho potuto correggerlo, correggerlo e correggerlo facendo attenzione a rispettare i suoi tempi e soprattutto il suo pensiero.
Questo è uno degli ultimi lavori che ha elaborato prima di lasciare la scuola media:
In quel buio specchio che è la coscienza vedo un bambino pieno di rabbia e rancore, che nel tempo ho domato, quasi represso nascosto nell’animo, questo bimbo mi parla delle sue sofferenze: nascere nella guerra e vivere nella paura di morire, arrivare in un paese straniero, imparare la lingua senza dimenticare la lingua natale, lo slavo, fa nascere una rabbia che ti colpisce dentro.
Piccole offese, disattenzioni, indifferenze e odi, forse involontari, ma che lasciano il segno nel cuore, prevalgono anche se hai un animo buono, ti fanno diventare nervoso e sentire incompreso. Alle elementari cercavo di conquistare gli amici con gli oggetti-simbolo per attirare la loro attenzione, ma mi sentivo solo e la rabbia aumentava dentro di me.
Finalmente sono arrivato alle medie dove mi bastava parlare per essere ascoltato e spiegare per essere capito. La mia rabbia è diventata energia, ho cominciato a vedere finalmente la vera persona che ero ed ancora sono. Sono un ragazzo sentimentalmente esperto sulle sofferenze altrui, un ragazzo che vorrebbe condividere il piacere di essere se stesso, un ragazzo come gli altri con una storia diversa. Perché diverso non sta al posto di pericoloso. Un ragazzo che tiene alle sue origini e non permette neanche al suo miglior amico di offenderlo per la religione o colore della pelle.
Come mi vedono gli altri? Molti in generale come il pericolo rivolto alla società, come chi distrugge le tradizioni degli altri e toglie il lavoro altrui… È già difficile normalmente vivere in un posto che non è la tua casa, in più dove gli altri provano disprezzo per te. Molte volte sento al mercato o nelle propagande politiche una mentalità che in parole povere dice “via l’invasore, via il diverso”, ma non esplicitamente (…).
Invece, vorrei che gli altri vedessero in me una persona diversa ma nel senso buono della parola: come una persona da cui si può imparare un pensiero diverso, vorrei vedessero una persona che ha dei diritti come delle responsabilità verso la società, vorrei che si aiutasse davvero l’emigrato senza volerlo rispedire in un paese forse in guerra, dove forse, appena arrivato verrà imprigionato o persino ucciso.
Forse, se le persone vedessero il bambino che ho visto io, capirebbero quanto si soffre, non a essere, ma a sentirsi diversi dagli altri e considerati inferiori. Se trovassimo il clima di aiuto e di amicizia anche fuori della scuola, ci può essere una speranza per chi come me pensa che non è la diversità e le cose che ci dividono in gruppi e ci diversificano, ma è importante quello che abbiamo in comune: il fatto di essere persone uguali in diritti e libertà».
Era molto orgoglioso R. e una volta un compagno che gli voleva sinceramente bene, mi ha detto che sembrava quasi che rifiutasse l’aiuto. Ne abbiamo parlato insieme. R. con gli occhi bassi gli ha spiegato che l’aiuto che gli veniva dato, non era alla pari come avveniva tra altri compagni. Lui si sentiva inferiore agli altri e questo gli faceva male. I suoi genitori erano poveri perché durante la guerra nella ex Jugoslavia avevano perso tutto, anche il titolo di studio e suo padre che era laureato ora doveva fare un lavoro umile per mantenere la famiglia.
Ha aggiunto guardando negli occhi il suo compagno: «Prova ad immaginare cosa vorrebbe dire per te e per la tua famiglia trovarti un giorno nelle mie stesse condizioni, come ti sentiresti?». Aveva perfettamente centrato il punto. L’altro aveva abbassato lo sguardo e aveva detto: adesso forse capisco.
E il passo importante nella accettazione di una realtà difficile avviene nel momento in cui il ragazzo sente che la sua storia aiuta gli altri ad aprire le loro menti, a capire qualcosa di nuovo, a capire che anche lui ha qualcosa da insegnare
Meraviglioso articolo! La società d’oggi cerca l’eccellenza in ogni cosa, peccato che non tutti siano in grado di arrivare a quel “livello” ma questo non vuol dire non essere capaci; non necessariamente si deve andare all’università per diventare “qualcuno”. Ognuno deve prendere la propria strada che si sente sicura di camminare.
Una bellissima testimonianza di questo ragazzo che considerato diverso, non si è “lasciato contagiare” da quello che la società pensavi di lui, ma si è riscattato, scoprendo se stesso e ritrovando le sue radici.
“Essere diverso non sta al posto di pericoloso” purtroppo la diversità fa paura a molti che non hanno nessun desiderio a scoprire “quanto sia diverso” da mio…. Non ne parliamo poi del sentirsi “adocchiato” come straniero, “diverso” in un paese che non è tuo…. Un altro argomento molto sentito.
Paola