di Emilia de Rienzo
«Noi facciamo della pratica, prima della pratica e poi della teoria. Non facciamo prima della teoria e poi della pratica perché questo sarebbe un cammino molto più reazionario di quanto voi non possiate pensare; la teoria è l’a priori scientifico: del vecchio pensiero scientifico. Questo ci è stato molto rimproverato. Non mi sono difeso, ho accettato il rischio dell’empirìa. Non avessi accettato questo rischio avrei riciclato inevitabilmente la teoria antica, quella dei testi e dei manuali da cui sono venuto. Avrei soddisfatto una forma di narcisismo intellettuale, avrei tradotto le nuove esperienze dentro un codice e un linguaggio che sarebbe rimasto lo stesso.
Franco Basaglia
In questo periodo storico nulla sembra essere vero o degno di attenzione se non è avvalorato dalla scienza.
Dovremmo essere, invece, più cauti sul pensiero scientifico, soprattutto quando si trasforma in tecnica, quando ad essere indagata è la vita stessa di persone e di individui ancora in crescita e dovremmo attivare il nostro pensiero critico nel momento in cui li si voglia ingabbiare in definizioni e classificazioni o in etichette vere e proprie. Dobbiamo ricordare che anni fa, proprio a causa di questo modo di procedere, sono nate le classi speciali, le classi differenziali, che grazie al cielo negli anni ’70 sono state abolite. Ma il pericolo è sempre in agguato anche se in altre forme.
La razionalità oggettivante traccia confini, misura separando, recide relazioni per recintare terreni. Può toccare cioè la vita stessa del quotidiano: il pericolo della classificazione e dell’etichetta è quello di guardare nell’individuo solo quello che appare “diverso” se non “patologico”, di focalizzare cioè l’attenzione su ciò che “non funziona” e dimenticare tutto ciò che è altro e che è molto di una persona.
Un conto è dire che un bambino ha difficoltà quando legge o scrive, e individuare tecniche, strategie per aiutarlo, un altro è definirlo, dargli “un nome” che finisce quasi sempre nella realtà, a sostituirsi al suo nome proprio.
Chiedevo ad un bambino della scuola elementare come andasse la scuola, e lui rivolto al padre ha risposto: “Papà, chi sono io? Un dis… dis… disle… Non mi ricordo… dillo tu” e il padre “Un dislessico”… Se nella domanda c’è il “chi sono”, non è casuale!
Nomi, ma anche sigle: BES, DSA, bambino con DDAI o ADHD, ma anche DOP e chi più ne ha più ne metta.
La società e le sue diverse istituzioni, in modi sempre differenti, a volte subdoli, costruiscono l’identità delle persone, i micro-sistemi con cui le vagliano e le controllano anche se fanno passare tutto con parole che sviano dalla verità.
Oggettivando la persona, la soggettività, il suo stare al mondo sono ridotti a un insieme di dati che compongono un profilo, cioè una enumerazione di «caratteristiche» che possono essere modificate a piacimento.
Non si tiene conto del fatto che il singolo sia immerso in una rete, più o meno fitta, di relazioni e che solo creando legami, lavorando sulle relazioni e sulla sfera emotiva ed affettiva è possibile assicurarne una crescita sana e degna di essere vissuta.
E’, infatti, inimmaginabile lo stato di frustrazione derivante dall’essere inchiodati a una definizione che distorce e mutila la propria complessità psichica.
Ci si chiede come una verità così semplice venga tranquillamente bai passata.
“Il pericolo è quell’essere ‘denominati‘, afferma Binswanger, “cioè etichettati e cristallizzati in una forma che tradisce sempre la nostra ricchezza interiore”.
“Al contrario, la forza e la verità dell’individuo albergano proprio nella sua incommensurabilità, nel fatto che nessuno potrà mai distruggere la sua unicità”.
Settorializzazione la visione del bambino vuol dire veder spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e ricoglierne quindi le potenzialità.
La conoscenza dell’altro avviene nella relazione e in un ascolto in cui si sospendono quei giudizi, quelle categorizzazioni in cui siamo immersi da sempre e quell’interiorizzazione del nostro ruolo che ci impedisce di “guardare oltre”. Un ascolto che, come dice Binswanger, “lascia venire ad essere” le cose e non le incanala da subito in definizioni, in classificazioni che occultano la vita dietro ad un muro di parole neutre e impassibili.
E allora, quando si parla di persone, di ragazzi e bambini, forse bisognerebbe tenere in più conto quel sapere che viene dall’esperienza e che quindi si forma nel tempo, nel suo accadere quotidiano, sempre alla ricerca di risposte ai problemi che ogni giorno la vita pone.
Se anche siamo in possesso di tecniche che possono essere utili, dobbiamo poi applicarle facendo attenzione massima alla sfera dei sentimenti, degli affetti e delle relazioni, facendo attenzione agli stati d’animo, dando a chi affianchiamo il coraggio di affrontare quella che è una sua difficoltà, ricordandoci che ogni individuo ha la sua storia e i suoi vissuti, che non è una scatola vuota da riempire.
La tecnica rimane solo una tecnica. Il bambino, il ragazzo hanno bisogno di molto di più. Hanno bisogno di qualcosa che non è né misurabile né standardizzabile.
Dovremo fare in modo che il luogo dove abitiamo con i nostrialunni, sia un luogo accogliente, fatto di persone che insieme lavorano per fare comunità. Una comunità viaggia insieme e cerca insieme soluzioni ai problemi che man mano si pongono ognuno nelle sue competenze. E anche i bambini sono competenti. Eccome lo sono.
Il pensiero, quindi, si fa “ricerca”, impara ad osservare, a creare, a non trascurare neanche i piccoli dettagli, quelle che sfuggono alle generalizzazioni, alle astrazioni, e che hanno la capacità di rimetterlo in movimento. Impara a riflettere su ciò che accade, e a guardare le cose da più punti di vista. Il dettaglio a volte ci fa scoprire aspetti inaspettati di una persona, ci fa cogliere anche solo uno sguardo rivelatore di uno stato d’animo, un atteggiamento del corpo, un’espressione del viso che possono dire molto di più di tante parole. L’attenzione al dettaglio sospende l’atteggiamento che ci fa dare per scontato ciò che ci circonda e che facciamo usualmente: con ciò avvia processi di nuova comprensione e di elaborazione della nostra esperienza. L’attenzione al dettaglio imparerà a costruire ambienti accoglienti a cui ognuno possa sentire di appartenere.
L’attenzione al dettaglio può far nascere nuove idee e ci mette in movimento verso direzioni non ancora esplorate. Ci fa provare e riprovare. Non ci fa mollare
Il pensiero scientifico, come dice Marìa Zambrano,
“astrae e isola dallo sfondo un’immagine per meglio impossessarsene, sradicandola da legami e provenienze che le danno vita, che è sempre mobile e temporale vita, per assicurarla nella sua visibilità chiara e distinta”.
Nel lavorare con le persone bisogna, invece, guardare la realtà “prestando attenzione a ciò che cambia, che si muove e questo è l’inizio del guardare veramente; del guardare che è vita.”
Immobilizzando, invece, la realtà, si cerca in un certo senso di dominarla, senza però comprenderla veramente in tutte le sue sfaccettature.
Classificare un bambino significa impedirgli di evolversi, di sottrarlo alle sue potenzialità creative, vuol dire non vederlo nelle sue potenzialità.
“Non ci si può basare su quello che manca in un certo bambino, su quello che in lui non si manifesta, ma bisogna avere un’idea di quello che possiede, di quello che è”
così dice Vygotskj, ma questo può essere possibile solo se avere delle difficoltà non significa essere isolati dal contesto sociale.
Aiutare i bambini a scoprire le proprie potenzialità: fare questo vuol dire aprirli alla speranza e la speranza è apertura al “possibile”, la speranza attiva, mette in movimento, il tempo che abbiamo davanti si apre alla realizzazione dei progetti che costruiamo forgiandoli sulla persona e non modellandoli su stampi già precostituiti e come tali mai raggiungibili.
Tante volte noi insegnanti pensiamo che di fronte a bambini problematici debbano essere gli psicologi ad intervenire ed in parte è vero.
Ma dimentichiamo che prima di tutto, tutti i bambini, anche quelli apparentemente più equilibrati hanno bisogno di atmosfere calde ed umane per crescere sani e che comunque la quotidianità è terapeutica di per sé, senza una buona quotidianità non esiste cura che tenga.
Bisogna credere nel riscatto del bambino, uscire dall’idea del bambino idealizzato, del figlio pensato, dell’alunno modello, per entrare in rapporto con il bambino reale, con le sue difficoltà, i suoi limiti e le sue potenzialità. E iniziare con lui il cammino.
Questo modo di vedere ci aiuta a fare della scuola un luogo dove “non si chieda di essere ‘forti’, ma in cui sia possibile non essere né forti né deboli, e accettare insieme la fragilità della vita”
Una scuola che sappia vedere nelle persone individui non etichettatili, che riconosca “la molteplicità”: ogni individuo si può esprimere in diversi modi e questo riconoscimento “non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di ‘normale’, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…)
Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’ della norma che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di ‘dover essere forti’, ‘all’altezza’’” recidendo “ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità”
da L’epoca delle passioni tristi di Miguel Benasayag
Può succedere, infatti, dice la Vegetti Finzi che
“per essere accettato, riconosciuto, amato, il bambino si sforza in tutti i modi di compiacere le aspettative dei genitori, dell’ambiente che lo circonda, dimostrandosi non solo bravo e intelligente, ma più bravo, più intelligente di altri”. Questo atteggiamento, però, ci avverte la psicologa, ha un rischio perché “avviene a spese del nucleo più profondo e più vero della sua personalità, quello legato alle emozioni e alla creatività, che non ha modo di manifestarsi, soffocato com’è da questo imperativo categorico: devi essere intelligente, se vuoi essere accettato”
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