A cura della Redazione
Abbiamo già parlato più volte di integrazione dei disabili, della legge 104 e di quanto ancora questa legge sia disattesa e lontana dall’aver realizzato gli obiettivi che si era proposta e che, chi ha lottato per ottenerla, chiedeva.
Siamo ancora molto indietro, quindi, nella realizzazione concreta dei principi enunciati in questa legge. La realtà del quotidiano presenta ancora molte difficoltà. Quello che ci preoccupa è che, invece di andare avanti, si sta andando indietro anche per i tagli consistenti dalla pubblica amministrazione.
Per questo abbiamo lanciato un appello che richiamasse l’attenzione su questo problema: ciò che si fa o non si fa per i più deboli è la misura di quanto il nostro paese sia più o meno democratico.
Se poi pensiamo anche solo alla rimozione delle barriere architettoniche sancite dalla legge 503/96, una legge chiara e precisa, potremo constatare quanto poco ci sia la volontà politica di metterla in atto.
Questa legge non riguarda solo chi è in carrozzella o ha un grave deficit motorio, riguarda tutti noi, chiunque sia in difficoltà in una città che, piuttosto che le persone, privilegia altre logiche.
La domanda fondamentale che ci dobbiamo porre è che cosa vogliamo che diventi la nostra città, il territorio in cui abitiamo, ricordandoci che ad essere in difficoltà sono in molti: il bambino che spesso vede minata la sua autonomia di movimento, che non ha spazi per giocare in libertà, l’anziano che troppo spesso vive nell’isolamento, la donna incinta o il genitore con il passeggino, e chiunque abbia anche una menomazione di carattere temporaneo.
E spesso a creare queste barriere siamo noi stessi, quando posteggiamo la macchina sulle strisce pedonali, in doppia fila… Ostacoli sono le paline del bus troppo in alto e poco leggibili, i marciapiedi troppo alti o senza scivolo…
Ma ci sono tanti altri impedimenti, che limitano la vita di molte persone che a volte neanche immaginiamo. Sarebbe un esercizio utile quando camminiamo per la strada, quando suoniamo un campanello (spesso alti per bambini), quando entriamo in ufficio, in una casa, in un negozio, quando andiamo in vacanza, di essere attenti a quali difficiltà potrebbero incontrare altri diversi da noi… Vedere le barriere architettoniche, ma anche percepire le barriere psicologiche.
Dovremmo porci di fronte alla nostra città, al nostro quartiere, al nostro territorio ripensandolo alla luce di quanto detto sopra. Si costruiscono muri da molte parti per impedire passaggi e migrazioni di gente, ma la mentalità del muro è molto vecchia, a noi abbattere queste barriere, ogni giorno, ovunque siamo, in prima persona per non crearle, lottando perché altri non le creino.
Ripensare la città partendo dal nostro quartiere vuol dire attivare un circuito virtuoso che metta al centro ogni soggetto nella specificità del proprio status sociale (minori, adulti, anziani, stranieri, disabili…) e saper creare luoghi adatti ad ognuno e luoghi dove incontrarsi, per parlare, per conoscersi, per relazionarsi gli uni agli altri.
Bisogna impegnarci a far comprendere a tutti i valori della convivenza e del rispetto dell’altro nella sua diversità, esprimere, quindi, una cittadinanza più attiva e più consapevole dei propri bisogni e di quelli degli altri, avere maggior rispetto e cura dell’ambiente.
Coinvolgere i vari soggetti che abitano il quartiere in processi di progettazione significa dare voce a chi, nel processo di sviluppo della città, non è stato mai considerato. Dar loro la parola significa assumere un nuovo atteggiamento, basato sulla consapevolezza del valore della diversità e dell’ascolto. Significa sviluppare la capacità ad accogliere i bisogni, i desideri di tutti quelli che contano meno e far diventare questa capacità una caratteristica nuova nel governo della città.
L’intento è trovare vie per rigenerare la comunità con cui si entra in contatto, per buttare semi che creino un tessuto sociale solidale attento ai bisogni di tutti, in particolare di chi è più debole.
Cambiare il territorio vuol dire quindi, anche e soprattutto, cambiare anche noi stessi, il modo di vedere se stessi e la comunità con cui si convive.
Prima di tutti sono i bambini a dover essere coinvolti, capaci di offrire punti di vista originali e utili per promuovere una maggiore sostenibilità nelle nostre città. Ma il loro sguardo deve confrontarsi con quello degli adulti, soprattutto con quello degli anziani, soggetti anch’essi deboli e con chi è in qualche modo disabile difficilmente preso in considerazione.
Consentire a bambini, ragazze, giovani di prendere in mano un po’ di più il proprio destino, il proprio tempo, di scoprire la possibilità della progettazione dei territori in cui vivono vuol dire aiutarli scoprire il piacere di apprendere e di imparare facendo, contribuendo a costruire un mondo in cui si impara a prendersi cura uno dell’altro ognuno con le proprie peculiarità e capacità.
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