«Fin dalla nascita il piccolo d’uomo è un essere di linguaggio e molte delle sue difficoltà, quando gli vengono spiegate, trovano soluzione nel momento più opportuno del suo sviluppo. Per quanto piccolo, un bambino al quale la madre o il padre parlano delle ragioni che sanno o suppongono essere alla base della sua sofferenza, è capace di superare la prova mantenendo fiducia in se stesso e nei suoi genitori» .
Françoise Dolto, Come allevare un bambino felice
Le parole sono importanti per quello che dicono, ma sono importanti anche per come lo dicono, per quello che lasciano trasparire dei nostri sentimenti verso coloro a cui è diretta la nostra comunicazione. E sempre, in ogni situazione, in ogni età, anche quando i fatti sembrano contraddirlo: «Ciò che non cambia è la fame di comunicazione dei bambini verso gli adulti» . Qualsiasi bambino desidera comunicare, entrare in relazione e soffre se non riesce a farsi comprendere.
Il bambino ha bisogno di quello che la Dolto chiama la «comunicazione umanizzata», un linguaggio cioè che sappia raggiungere il suo cuore qualsiasi età egli abbia, un linguaggio attento, paziente, affettuoso. È questo linguaggio, però, che si va perdendo nella nostra società che non si dà il tempo di «parlare, cantare, cullare, riconciliare il bambino con se stesso» e avere «tolleranza verso le sue manifestazioni di sofferenza» .
I bambini non sono scatole vuote, essi entrano nella scuola con un loro bagaglio di conoscenze, di sentimenti, di ricordi e di emozioni, di vissuti insomma di cui non si può non tener conto quando ci si accosta a loro.
È di qui che dobbiamo partire. Noi insegnanti dobbiamo imparare a conoscerli. La conoscenza non è però semplicemente quella raccolta di dati anamnestici, quell’accumulo di notizie che ci dà l’illusione di sapere già tutto quello che si deve sapere e che soprattutto ci permette di catalogare fin dal primo approccio il bambino in una casella piuttosto che in un’altra. Un accumulo di notizie questo che, invece di tenerci lontano dal pregiudizio, può rafforzarlo.
La conoscenza avviene nella relazione quotidiana, in un colloquio costante e attento, direi instancabile. La «comunicazione umanizzata» si contrappone al giudizio precostituito, quello che oggettivando il sapere del bambino, rischia di oggettivare il bambino stesso.
Ricordo di aver sentito, il primo giorno di scuola di prima media, pronunciare da una collega una frase significativa: «Scommettete! Io so già chi sarà bocciato alla fine dell’anno!».
E di bocciature annunciate ne potremmo raccontare tante, perché come dice questa insegnante, chi non è «attrezzato», chi non ha gli strumenti o come vengono chiamati «i prerequisiti per…», chi non ce la fa ad un certo punto a reggere il carico di un apprendimento senza aiuto e senza soste, è bollato e la parola «bocciato» rende bene l’idea anche se con molta più ipocrisia oggi l’abbiamo sostituita con «non ammesso alla classe successiva».
Non bisogna essere dei grandi indovini. Se le richieste che facciamo, le metodologie che usiamo sono sempre le stesse, la previsione può essere semplice. Atteggiamento ben diverso è se accettiamo la sfida di riuscire a modificare un percorso che sembra già segnato e prestabilito. Se prendiamo sul serio l’insuccesso scolastico, ma non come prova che un bambino non è adatto alla scuola, non per svalutarlo, non per mettergli un’etichetta, ma per capire come mai il suo processo di apprendimento si è bloccato.
La bravura di un insegnante non la si misura sui ragazzi che sono già bravi in partenza, ma sulla capacità di aiutare chi è in difficoltà e di risollevarlo da un destino che altri credono già segnato.
Dicendo a un bambino che gli mancano le capacità lo si priva della fiducia in se stesso e davvero lo si condanna all’insuccesso. I bambini possono entrare in una classe dove già tutto è predisposto dai programmi e da come i professori o i maestri intendono svolgerlo. Si presentano a noi con la loro intelligenza che può essere adatta o no ad apprendere il programma, a essere disciplinata. Tutto il resto passa sotto i nostri occhi come ci fosse estraneo e non ci riguardasse. Non ci sentiamo chiamati in causa perché il nostro compito è insegnar loro la matematica, la grammatica. I loro problemi non rientrano nei nostri compiti.
Se, invece, siamo curiosi di conoscerlo per aiutarlo ad uscire da quelle difficoltà in cui si sente intrappolato, se avremo quella curiosità che Bencivenga definisce «appassionata e affettuosa con cui si portano in luce i segreti di una persona cara; non quella tirannica e sterile con cui ci si appropria di un inutile dato statistico», se parleremo con lui per capire cosa gli sta capitando, se dimostriamo interesse sincero per lui così com’è, forse può iniziare un cammino.
Ci sono due scuole davanti a noi: quella in cui i programmi si plasmano sugli alunni o viceversa quella in cui sono gli alunni che devono plasmarsi sui programmi. Una scuola dove il problema, la difficoltà del ragazzo diventano un momento di ricerca per trovare soluzioni e strategie o un’altra in cui la difficoltà è stigmatizzata da un voto negativo o da una sanzione.
«Abbiamo ampie prove del fatto che gli esseri umani di ogni età sono più sereni e in grado di affinare il proprio ingegno per trarre un maggiore profitto se possono confidare nel fatto che al loro fianco ci siano più persone fidate che verranno in loro aiuto in caso di difficoltà»
John Bowlby
Ogni bambino entra nella scuola pieno di speranza. Anche il ragazzo più problematico, con alle spalle un passato difficile, spera di essere affiancato, si aspetta che qualcuno trovi la chiave per entrare nel suo mondo e lo aiuti a utilizzare al meglio le sue risorse.
Quando incontriamo con i bambini delle difficoltà, ci dobbiamo porre questa domanda: è lui a non essere adatto alla scuola o è la scuola a non essere adatta a lui?
Ed estendendo il problema: sono i bambini che si devono adattare ad una scuola sempre uguale a se stessa o è la scuola che deve modulare il suo passo per accompagnare i bambini e i ragazzi in crescita?
Se all’inizio dell’anno qualcuno può già stabilire chi è bocciato e chi no, vuol dire che la scuola ha fallito il suo compito educativo e formativo: quello di far sì che chi entra in essa esca un uomo migliore.
Sperando che sia la scuola che “apra alla speranza” che accolga ogni bambino, che auguriamo un buon inizio anno.
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