La relazione educativa è fondamentale per una sana crescita di un bambino e giovane. A questa considerazione mi porta la mia conoscenza pratica di neuropsichiatra psicoterapeuta infantile .
Sempre di più, infatti, arrivano in consultazione bambini, adolescenti e giovani adulti che hanno avuto una storia scolastica difficile. Il più delle volte hanno manifestato dei segnali, dei sintomi precisi già in epoca precedente ma che non sono stati ascoltati né accolti, giungono, quindi, in consultazione quando manifestano già patologie strutturate.
Ricostruendo la loro storia, è inevitabile considerare che, se questi bimbi avessero trovato momenti di maggiore ascolto o attenzione da parte degli insegnanti, se avessero trovato qualcuno su cui appoggiarsi un po’ di più, avrebbero probabilmente risolto prima, almeno in gran parte, i loro problemi, senza soffrire degli insuccessi, senza chiudersi nella disistima di sé.
Ognuno di noi ha una storia personale in cui sicuramente qualcosa avrebbe funzionato diversamente se ci fosse stato qualcuno a dare una mano in più, se ci fossero stati stimoli diversi.
Parlare di relazione vuol dire, quindi, parlare di “ attenzione a quello che capita al bambino”, a ciò che gli si presenta come persona e a ciò che si potrebbe offrire, non perché siamo spinte dalla benevolenza, ma perché siamo nel ruolo dell’adulto e il ruolo dell’adulto e il ruolo professionale dell’insegnante non possono che coincidere.
L’adulto è adulto maturo nella misura in cui sa e riesce a prendersi cura di sé e degli altri; allorquando realizza se stesso – la piena individualità, senza sopraffare l’altro, senza inondare l’altro dei propri problemi.
L’adulto è “adulto maturo” nella misura in cui, riesce a esprimere ed elaborare la propria genitorialità nei confronti del più debole e del più piccolo (indipendentemente che abbia figli o che sia genitore).
La solidarietà, a mio avviso, non deve essere intesa solo di matrice religiosa, bensì dobbiamo intenderla come un concetto esistenziale.
Non può esserci sviluppo del singolo individuo se il singolo individuo non è all’interno di una rete di relazioni, di una situazione di scambio e di aiuto. Molto spesso, in questo sistema complesso, l’insegnante rischia di vivere questa funzione “Adulta”, con il timore di essere troppo implicato ed allora si arriva a dire “non è nostro compito” dare così tanto aiuto e comprensione agli allievi!
Quello che professionalmente si chiede a un insegnante è la capacità di essere persona, adulta, matura, in grado quindi, grazie alla sua funzione genitoriale, grazie al suo sapersi prendere cura di sé e dell’altro, di essere poi figura di riferimento efficace al fianco di soggetti in crescita per aiutarli a crescere e a diventare adulti migliori di quanto siamo noi.
Fare l’insegnante significa avere il coraggio di cambiare se stessi, di avere il coraggio di accettare la frustrazione, di vedersi non in modo proiettivo nell’altro ma in relazione con l’altro, per l’altro nella reciprocità quindi dei meccanismi di crescita e nella reciprocità delle “tempeste emotive” che vivono nel il bambino.
Non ci può essere una relazione se non attraverso una reciproca tempesta emotiva.
Questo significa che il “mito” dell’insegnante così come del genitore “neutro” che dice “per me sono tutti uguali”, dell’insegnante che dice “non posso trattare in modo diverso” è appunto solo un mito, è difendersi dalla tempesta emotiva che comunque ci coinvolge sempre nella relazione perché c’è emotività e affettività tra adulto e bambino, tra adulto e adulto nel momento in cui c’è uno stare assieme; quindi difendersi dalle tempeste emotive significa negarsi alla possibilità di costruire una relazione valida.
Aver timore di essere coinvolti emotivamente significa difendersi dall’entrare in comunicazione .
Ci vuole certamente coraggio per accettare di sentire, provare, essere implicati, doversi destreggiare, doversi avvicinare e allontanare; e sapere costantemente che si è in questo movimento di avvicinamento e allontanamento nei confronti dell’altro.
Bisogna quindi sapersi “mettere in gioco”, avere il coraggio della sincerità verso noi stessi, accettare di scoprire di non essere come il nostro Io ideale, accettare di scoprirci fragili.
Il grande mito dell’adulto che fa parte della nostra cultura è stato il mito dell’adulto forte che fa a meno dell’altro, che risolve tutto da solo; noi siamo, infatti, sempre all’interno di una cultura societaria direttiva, che porta e incentiva il mito dell’ideale di sé, saper fare da sé in modo assolutamente autonomo, c’è il mito di essere il primo, essere il meglio.
Dobbiamo stare attenti che questo mito non diventi una corazza della nostra psiche e produca individui con una personalità basata su una falsificazione interna, (falso-se) con un grande apparato esterno e un piccolo apparato interno.
Aiutare un bambino a crescere, è il modo più efficace per favorire anche la propria crescita di adulto.
A cura della redazione
Estratto da verbali di registrazione Open Group – Interlocuzioni e risposte di Germana De Leo – Corso di Formazione con docenti sc.primaria “ Educare Dialogando”