Un problema, che oggi irrompe nell’istituzione scolastica, creando allarme e preoccupazione, è quello del bullismo, fenomeno che può manifestarsi in diversi luoghi aggregativi ed in ambiente scolastico in particolare per la sua stessa struttura costitutiva: è il luogo sociale di “transito” di tutti i nostri bambini e ragazzi.
IL BULLISMO OGGI
Nel nostro Paese, ormai da più di un decennio, occupa spesso le prime pagine dei quotidiani e trova eco sulle pagine web spesso con un’enfatizzazione eccessiva e non rispondente alle reali dimensioni del fenomeno. Viene infatti descritto come se ci trovassimo di fronte a un’“emergenza disciplinare”, alimentando un’immagine pubblica della scuola (e dei suoi insegnanti) molto negativa, come se il problema trovasse al suo interno le cause principali del suo manifestarsi o fosse di sua esclusiva pertinenza la ricerca di possibili soluzioni.
Diciamo allora subito che si tratta di un fenomeno sociale di dimensione europea e mondiale, che non esclude quindi l’Italia dove raggiunge dimensioni che certamente preoccupano, ma che vanno affrontate con una conoscenza approfondita e con strumenti adeguati.
Ada Fonzi nella Conferenza sullo Sviluppo tenutasi a Milano nell’agosto del 2003 denunciava che il 41% dei bambini della scuola elementare subiva atti di bullismo. (A. Fonzi, Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze 1997)
Ricerche più recenti, quali quelle dell’Eurispes con il X Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza, il Rapporto OCSE con l’indagine TALIS (Teaching And Learning International Survey) del 2008 e documenti del Ministero della Pubblica Istruzione, offrono una panoramica più aggiornata e più articolata e per certi versi più confortante nel confronto con gli altri paesi europei. Vogliamo sperare che sia il risultato, seppure parziale, delle ormai molteplici iniziative promosse da molte istituzioni scolastiche autonomamente e in collaborazione con altre istituzioni territoriali. In sintesi, attingendo al testo di Girolamo De Michele “La scuola è di tutti, Minimum Fax, Roma 2010 ” possiamo dire relativamente agli studenti coinvolti, nel 2009, come attori o come vittime in episodi di bullismo:
[…]Da un minimo del 10% a un massimo del 25%, a seconda della soglia di riferimento, con un numero di bulli maggiore del numero delle vittime: più o meno come in Spagna e Norvegia, meno dell’Inghilterra, più dell’Irlanda […]. Come in ogni paese, è nella scuola elementare che la percentuale di studenti coinvolti in episodi di bullismo è più alta: “ Le ricerche effettuate confermano che il fenomeno è più elevato nelle prime fasi dello sviluppo e tende a diminuire progressivamente con l’età: si passa infatti da un 28% nella scuola elementare, al 20% nella scuola media, a circa il 10-15 % nelle scuole superiori...
Fenomeno esteso, quindi, ma anche molto complesso, che certamente non caratterizza solo la nostra epoca.
Rimanendo in ambito scolastico, possiamo affermare che “bulli e vittime” sono sempre esistiti; uso della forza fisica, esercizio di forme di potere anche per status sociale, atteggiamenti prevaricanti, intimidatori, di esclusione delle diversità, di sopraffazione dei più deboli sono sempre stati presenti.
Certo il fenomeno, che oggi denominiamo “bullismo”, mantiene molte analogie con il passato, ma ovviamente, essendo espressione della contemporaneità, assume caratteristiche e forme nuove e per alcuni versi ancora più gravi. Pensiamo ad esempio al bullismo “elettronico” (cyberbullyng), attuato attraverso le tecnologie (internet, web, cellulari…), di cui i bambini e i ragazzi fanno grande uso per lo più senza alcun controllo da parte dei loro educatori.
Diciamo allora che gli studi relativi al “fenomeno bullismo” sono piuttosto recenti; risalgono, infatti, agli inizi degli anni ’70 ed ebbero origine nei paesi scandinavi; da allora si è sviluppata una specifica letteratura di approfondimento (in Italia a partire dagli inizi degli anni ’90), sebbene premesse teoriche importanti e ineludibili si devono far risalire agli studi sull’aggressività, sia in campo etologico che psicologico e psicoanalitico, fin dalle loro origini. (Fonzi, Il gioco crudele, Giunti, Firenze 1999)
IL PROBLEMA DELL’AGGRESSIVITÀ
Il fenomeno, che oggi così tanto ci preoccupa, appartiene alla storia individuale e sociale dell’uomo. Esso esiste perché affonda le sue radici nell’aggressività, “fenomeno vitale”, che appartiene alla organizzazione psichica dell’uomo.
Secondo Freud esiste una insopprimibile tendenza all’aggressività, una pulsione di morte (Thanatos) in contrapposizione ad una pulsione di vita e di creatività (Eros). Bettelheim nel suo libro “Sopravvivere”, confermando tale assunto, dirà che
[…] la violenza esiste, esiste certamente, e ciascuno di noi nasce con il proprio potenziale di violenza. Ma ciascuno nasce con il suo contrario, e queste altre potenzialità vanno coltivate con cura, se vogliamo che possano essere controbilanciate le tendenze che ci spingono a commettere azioni violente.
Nel saggio “Il disagio della civiltà” Freud applicò la sua teoria sulle pulsioni individuali alla storia dell’umanità ed al processo di civilizzazione, sostenendo che regole, ordinamenti, istituzioni (repressive ed educative) e manifestazioni culturali e ideologiche (la morale, l’etica, la religione) consentono tale processo; in altre parole l’umanità evolve verso forme di civiltà più funzionali a garantire la sicurezza del vivere in una comunità organizzata, attraverso un’attività di inibizione, di controllo, di canalizzazione/sublimazione delle pulsioni originarie, come la sessualità e l’aggressività, attraverso lo sviluppo della dimensione creativa presente in ogni uomo.
L’esistenza di questa tendenza all’aggressione, che possiamo scoprire in noi stessi e giustamente supporre negli altri, è il fattore che turba i nostri rapporti con il prossimo e obbliga la civiltà a un grande dispendio di energia. Per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società civile è continuamente minacciata di distruzione[…] La civiltà deve fare di tutto per porre dei limiti alle pulsioni aggressive dell’uomo[…] Di qui l’impiego di metodi intesi a provocare negli uomini identificazioni e relazioni amorose inibite nella meta, di qui le restrizioni della vita sessuale, di qui anche il comandamento ideale di amare il prossimo come se stessi.
Riferendoci ancora a Bettelheim, possiamo sintetizzare dicendo che l’umanità per evolversi e giungere a stadi più elevati di civiltà ha sempre usato e continua ad usare la violenza per reprimere la violenza. Il problema non è di negare l’aggressività, è semmai quello di come limitarla, contenerla, diminuirla, modificarla, pensando “utopicamente” ad una comunità democratica e globale dove siano ampiamente privilegiati rapporti pacifici, cooperativi e solidali.
L’aggressività quindi esiste, è vitale, può essere una risposta necessaria alla propria sopravvivenza, all’affermazione del proprio io, del proprio desiderio; può essere una risposta ad una situazione che genera frustrazione o paura, una modalità di affermazione in un contesto svalutante, ma essa può essere educata entro certi limiti e consentire a ogni individuo di trovare il suo equilibrio tra
[…]due tendenze, di cui l’una, che comunemente chiamiamo egoistica, ambisce alla felicità, e l’altra, che chiamiamo altruistica, ambisce all’unione coi membri della comunità.
Possiamo concludere rimarcando la complessità di tale problematica, richiamando alcuni autori contemporanei che evidenziano come la violenza sia una modalità di comportamento non solo reattiva, che si esplica cioè quando l’individuo cerca di difendersi, opporsi, affermarsi, ma anche come tipica espressione umana che ha a che fare con la dimensione del piacere di “compiere il male”.
La violenza può essere affascinante. Come afferma Anna Oliverio Ferrarsi in Piccoli bulli crescono:
La violenza affascina perché è l’espressione di impulsi che ognuno ha dentro di sé[…]. La violenza attiva l’organismo modificandone l’intera fisiologia […] e come tutti i comportamenti istintivi è associata a una compartecipazione emotiva. Anche i bambini come gli adulti, sentono il fascino della violenza, dell’animazione che crea, e ogni volta che c’è una zuffa nella realtà o una scena di violenza sugli schermi corrono a vedere. Sono attratti da quella energia primordiale che, manifestandosi, travolge le regole, se ne infischia della legge.
Il tema è di grande attualità. Segnaliamo in proposito l’attenzione che oggi viene riassegnata all’opera di Dostoevskij, in particolare ai Demoni e alla figura del Grande Inquisitore che troviamo nei Fratelli Karamazov.
Lo studio di Simona Forti, “I nuovi demoni”, mette in evidenza, rianalizzando l’opera di Dostoevkij, il rapporto tra male e potere (e quindi tra prevaricatore e vittima) tra violenza e affermazione di sé.
Altrettanto interessante per comprendere quanto sia labile la frontiera tra l’aggressore e l’aggredito, tra male e bene, ci viene offerto dall’esperimento con studenti del Dipartimento di psicologia dell’Università Stanford di cui parla Philip Zimbardo nel suo saggio “L’effetto Lucifero”.
Ritorniamo allora a domandarci cos’è il bullismo secondo le più recenti interpretazioni.
Chi è il bullo e chi è la vittima?
Dan Olweus, uno degli studiosi “storici” del fenomeno, sostiene che il bullo è un individuo che agisce secondo un modello reattivo aggressivo e per lo più associato alla forza fisica, mentre la vittima ha un modello reattivo ansioso e sottomesso associato per lo più alla debolezza fisica.
Le caratteristiche principali del fenomeno possono essere così riassunte: intenzionalità del bullo nello scegliere e perseguitare la sua vittima, persistenza e ripetitività dei suoi comportamenti prevaricatori, disequilibrio tra persecutore e vittima, asimmetria della relazione, ineguaglianza di forze, anche fisiche, e di potere. Interessa i maschi ma non esclude le femmine, è trasversale ai diversi ceti sociali, è presente in ogni regione geografica relativamente al nostro Paese.
Esso può manifestarsi come bullismo fisico (aggressione vera e propria), verbale (derisione, insulto), indiretto (pettegolezzo e dicerie), relazionale (esclusione dal gruppo). Oltre al binomio bullo-vittima coinvolge più soggetti con diverse strutture psicologiche: le figure di sostegno del bullo, i cosiddetti gregari, gli osservatori neutrali, il difensore della vittima, quando c’è, i bulli d’occasione, quelli che si aggregano per episodi isolati per lo più per azioni di bullismo di gruppo nelle quali le responsabilità sono diffuse e il senso di colpa ridotto.
Il bullismo può anche essere visto come aspetto di un più generale comportamento antisociale che si caratterizza per la mancanza di rispetto delle regole (disturbi della condotta) con ricadute nefaste sul piano personale ma anche sul piano sociale… (D. Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze 2007)
Da giovani adulti i bulli precoci registrano un aumento quadruplo nel livello di criminalità.
Il riferimento è alla società norvegese, ma è comunque dimostrata una forte correlazione tra forme di bullismo persistente e comportamenti violenti, antisociali e criminali col crescere dell’età, e per altri aspetti tra vittimismo e rilevanti disagi e sofferenze personali (alti livelli d’ansia, depressione…) e sociali (isolamento, esclusione, xenofobia, razzismo…).
Dice De Michele:
Il bullismo esiste perché nella società esistono relazioni che generano violenza, aggressività, conflitto: tali relazioni hanno una loro ragione di esistere, o perché non ci sono strumenti educativi adeguati, perché la famiglia, come istituzione, fatica a svolgere il proprio compito educativo, o forse perché tale ruolo della famiglia del passato è frutto più di un abbaglio illusorio che di una reale rappresentazione di quello che la famiglia era. Ma soprattutto, perché la precarietà della condizione sociale che viviamo da anni produce una precarietà affettiva ed emozionale che si manifesta sotto forma di ansia, panico, insicurezza, incapacità di rapportarsi al futuro… E questa instabilità emotiva, questo panico sociale, questo perenne turbamento si scarica in forme aggressive e violente…
Possiamo aggiungere che inevitabilmente queste ultime si riverberano e si scaricano sulle fasce più deboli, sui figli e sugli alunni “affamati” di modelli da imitare per poter progredire nella loro crescita.
Alla luce di quanto abbiamo fin qui evidenziato tentiamo ora una definizione sintetica del fenomeno bullismo.
Adottando lo stesso termine usato per spiegare lo sviluppo del pensiero morale, possiamo affermare che esso è un fenomeno “plurifattoriale”. Vi possono concorrere i tratti temperamentali dell’individuo (più a rischio un temperamento con una forte reattività emozionale), il funzionamento delle strutture cerebrali (secondo alcune ipotesi e ricerche in campo neurobiologico e neuropsicologico di più recente datazione), possibili disfunzioni neurofisiologiche, gli stili cognitivi, il tipo di intelligenza (quella verbale può facilitare la funzione metacognitiva e metaemotiva), le prime esperienze di attaccamento e di cura, le dinamiche relazionali familiari, i modelli che vengono trasmessi dalla famiglia, dalla scuola, dai media, dal più ampio contesto sociale.
FAMIGLIA, SCUOLA E BULLISMO
Ci rendiamo conto che ogni concausa meriterebbe una specifica analisi.
Noi scegliamo di rimanere sempre in campo educativo, ritornando alla questione da cui siamo partiti, al problema di come formare il pensiero morale, di come favorire l’introiezione delle regole della convivenza. Pensiamo, infatti, a proposito di modelli da imitare e da assorbire, per farne stili personali di comportamento, che tra le molteplici cause ci sia anche quella “insana” introiezione di regole e comportamenti, che induce bambini, ragazzi, adulti a sentirsi autorizzati ad assumere, singolarmente o come gruppo, comportamenti prevaricatori e persecutori nei confronti di chi è “prossimo”, “diverso” ed in posizione “debole”, a volte di vera e propria subalternità, possibile vittima, facile preda su cui esercitare il proprio potere, il desiderio di sentirsi più forte, più importante.
In assenza di regole di comportamento, acquisite fin dalla primissima infanzia o acquisite in modo incerto, superficiale e instabile, il rischio bullismo è alto.
Sappiamo anche che in mancanza di regole comprese, accettate e condivise si è pronti a definirle per proprio conto, trovando giustificazioni razionali al proprio agire o semplicemente vivendo le proprie emozioni senza alcuna canalizzazione e mediazione sociale, divenendo queste l’inconscia giustificazione del proprio vivere.
L’individuo, come confermano gli studi del settore, non è formato dalle sole componenti genetiche, maturazionali e ambientali, ma queste si intrecciano con un’altra caratteristica fondamentale della persona umana, a cui abbiamo già accennato: la capacità di autoregolazione. Questa può originare risposte adattive positive, ma può anche portare a un rapporto con il contesto sociale “rigido”, secondo regole proprie non pattuitili e non modificabili, unica modalità per regolare le proprie relazioni e la propria vita.
Per inciso in questa capacità di autodeterminazione gioca un ruolo importante il pensiero divergente. L’educazione debba considerarlo un fine e un mezzo, una variabile determinante nella formazione della persona. Tuttavia il pensiero divergente, se non è adeguatamente indirizzato verso l’adattamento, può esso stesso essere fonte di disagio. In effetti per tutti è necessario, in qualche modo, maturare delle modalità equilibrate di adattamento all’ambiente. Quando parliamo di divergenza, quindi, ci riferiamo sempre a un individuo che sappia intervenire criticamente ed in modo originale nel e sul suo contesto di vita.
Ritorniamo allora al ruolo che dovrebbe essere svolto, all’interno di un definito e accettato quadro valoriale, da genitori e insegnanti (ma anche da altre agenzie educative) nell’educare al rispetto delle regole, nell’acquisizione del pensiero e della coscienza morale, al fine di prevenire, arginare, ridurre il fenomeno del bullismo che si manifesta a scuola, in famiglia, in ogni altro contesto aggregativo.
È ampiamente dimostrato che contesti in cui dominano la coercizione (parliamo dell’autoritarismo e non dell’autorevolezza), e quindi l’imposizione di regole a cui ci si deve adattare anche se ingiuste e violente, non rispettose dei bisogni e dei diritti dei singoli, o nei quali, al contrario, prevalgono atteggiamenti negativi di fondo, connotati da mancanza di calore e di coinvolgimento o da lassismo e incoerenza, possono favorire comportamenti da bullo, da individuo prepotente. Olweus, relativamente al contesto familiare, annovera tra i fattori che provocano l’aggressività dei ragazzi gli stili educativi, che riassume in modo conciso e lapidario con le seguenti parole:
[…]poco amore, poca cura e troppa libertà nell’infanzia sono condizioni che contribuiscono fortemente allo sviluppo di un modello aggressivo.
Allo stesso modo un rapporto simbiotico (a volte reciprocamente simbiotico) tra genitori e figli, ma anche tra insegnanti e allievi, oppure un’eccessiva iperprotettività possono spianare la strada al vittimismo.
La stessa conduzione di una classe, quando è svolta con una gestione autoritaria, che esclude il confronto, e quindi la comprensione del perché le regole vadano accettate, o la mancanza del giusto distacco da certi alunni più tendenti alla dipendenza piuttosto che all’autonomia, può provocare situazioni che favoriscono sia il manifestarsi di azioni aggressive che atteggiamenti di subalternità. Non vogliamo dire che la scuola sia, in alcune situazioni, essa stessa causa in primis di fenomeni di bullismo, i cui presupposti abbiamo detto risiedono nei tratti temperamentali e nell’ambiente di vita che precede l’ingresso a scuola, ma è anche vero che a volte la scuola può divenire concausa o non essere in grado di leggere il fenomeno, adottando “rimedi” punitivi che in sostanza non inducono reali e duraturi cambiamenti della condotta degli allievi più aggressivi né aiutano i ragazzi più fragili ad uscire dalla loro dipendenza.
INTERVENTI EDUCATIVI E BULLISMO
Delineati nelle pagine precedenti gli stili educativi ritenuti più efficaci al fine dell’acquisizione delle regole condivise, ci addentriamo nella questione di ciò che a scuola può essere realizzato per ottenere risultati positivi.
Si parla sempre più spesso, e giustamente, di “analfabetismo emotivo” in riferimento ai giovani, con un forte richiamo ai docenti di ogni ordine scolastico ad includere l’educazione emotiva tra i propri compiti.
Si tratta, infatti, di educare i nostri bambini, fin dalla prima infanzia, a riconoscere le proprie emozioni per imparare a controllarle, a nominarle, a incanalarle, trasformarle mediante le possibilità offerte dalla letteratura, dal teatro, dall’arte… che ne consentono l’espressione o la necessaria sublimazione in forme più accettabili.
Si tratta di aver consapevolezza che l’intelligenza e il pensiero astratto si sviluppano in collegamento con le emozioni.
Dice Eugenio Borgna in L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2007:
Ci sono le emozioni e c’è il pensiero, c’è la vita emozionale e c’è la vita della ragione…; e solo nella misura in cui ci sia concordanza e conciliazione fra una categoria e l’altra è possibile avvicinarsi ai problemi conoscitivi ed esistenziali senza squilibri… Non c’è, del resto, un pensiero che possa fare a meno di un back-ground emozionale, di una dimensione emozionale, perché la ragione astratta (la ragione radicalmente de-emozionalizzata) non coglie se non alcuni aspetti (schematici e gelidi) del reale (del reale divorato oggi dalla tecnica) e non quelli che, indicibili e in- conoscibili, fanno parte integrante del modo di vivere e di sentire di ognuno di noi.
L’alfabetizzazione emotiva dovrebbe essere per tutti i docenti un impegno imprescindibile a cui necessariamente affiancare, perché ne è strettamente connessa, l’“alfabetizzazione morale” dei nostri bambini, ragazzi, giovani. Non è solo una questione di Educazione civica, (ahinoi) piuttosto negletta o marginale, o di educazione alla Costituzionalità, come reso obbligatorio oggi per la scuola superiore dalla riforma Gelmini, sottraendo peraltro ore ad altre discipline.
È una questione di insegnamento trasversale di principi e comportamenti, che certo possono essere approfonditi con lo studio disciplinare e interdisciplinare, ma che possono essere acquisiti stabilmente solo attraverso coerenti azioni quotidiane.
Esplicitiamo allora ciò che è possibile fare, attingendo alle “normali” risorse della scuola.
Innanzitutto pensiamo ad un’azione preventiva della scuola per arginare l’insorgere di condotte aggressive cui può associarsi quella riabilitativa nel momento in cui ci fossero casi di alunni con comportamenti violenti e prevaricatori.
E ovviamente partiamo dai docenti.
Più volte in questo testo ci siamo richiamati ad alcune caratteristiche che riteniamo indispensabili per svolgere al meglio il proprio compito educativo. In primis, di questo impegno devono aver consapevolezza, sapere ed aver interiorizzato che sono “a disposizione” dei loro alunni per aiutarli a crescere. Non è questione scontata. Se ne fossero davvero consapevoli molti insegnanti non metterebbero al primo posto il programma da svolgere, ma terrebbero conto delle difficoltà presenti, dei ritardi di maturazione di alcuni. Saprebbero darsi e dare tempo.
Essere empatici, saper prestare ascolto, essere coerenti, sapere essere “fermi” quando necessario, porsi alle giuste distanze, porsi le buone domande, aiutare i propri alunni a riflettere su di sé, sui propri processi cognitivi, sulle proprie emozioni e sui propri sentimenti, sono dimensioni, che abbiamo spesso richiamato, che dovrebbero caratterizzare il loro operato.
Ci vogliono insegnanti “quasi perfetti”. Ne esistono? Ce ne sono molti, ma non quanti servirebbero. Ovviamente la perfezione è irraggiungibile (la formazione iniziale non è adeguata, quella in itinere insufficiente e problematica). Occorre perciò concentrarsi sul “quasi” per cercare di migliorare il rapporto docente/alunno nelle condizioni reali in cui oggi si fa scuola.
La proposta di formazione psicopedagogica con il metodo dell’osservazione che proporremo al capitolo 11 va in questa direzione. Osservare i propri alunni fin dalla scuola dell’infanzia nelle loro relazioni interpersonali, con coetanei ed adulti, le loro modalità di risposta, anche aggressive, rispetto agli stimoli offerti, o rispetto a un evento disturbante o stressante, rilevare la loro tolleranza delle frustrazioni, possono essere di aiuto per organizzare un ambiente che accoglie, contiene e protegge. Si tratta in definitiva di organizzare un ambiente favorevole allo sviluppo di relazioni sicure, predisponendo lo spazio ed il tempo/tempi delle attività, l’alternanza, la continuità.
Si tratta, inoltre, fin dalla prima fase della loro scolarizzazione, di creare occasioni, spontanee e programmate, in cui sia possibile riflettere o per meglio dire “mentalizzare” i propri modi di relazionarsi, emozioni, vissuti, aggiungendo alle parole, qualora non fossero “disponibili”, ogni attività ( drammatizzazione, gioco delle parti…) che possa aiutare a far affiorare vissuti emozionali forti e distruttivi come la rabbia o la paura. Ci dice Granieri in Storie complicate. La scuola al di là delle riforme, Fratelli Frilli Editori:
[…]Questo presuppone la disponibilità da parte del docente a osservare, autosservarsi e comprendere, per poter rispondere in modo sintonico ai sentimenti comunicati dall’allievo.
Allievo a cui va prestata attenzione nella sua globalità per imparare a vederlo nella sua interezza, per non cogliere solo le modalità reattive che più “disturbano”.
Tale capacità di lettura, che, come abbiamo cercato di dimostrare, si può apprendere senza troppi oneri organizzativi, può portare i docenti di qualsiasi ordine scolastico a diversificare l’azione didattica.
Non si tratta solo di individualizzare l’insegnamento, o di personalizzarlo per rispettare tempi e ritmi dell’apprendere, come s’è detto in tempi più recenti, ma di proporre attività varie (non solo il linguaggio verbale ma tutta la gamma del non verbale e ogni altra esperienza motoria, sportiva o conoscitiva dell’ambiente extrascolastico), che possano aiutare tutti i ragazzi, in particolare quelli con tendenze o con comportamenti aggressivi, a trovare modalità espressive e comunicative, portando allo scoperto emozioni, sentimenti negativi, stati mentali potendoli così nominare e quindi tollerare.
A questo punto della nostra riflessione proseguiamo con il seguente racconto:
Antonio, un alunno di una prima elementare del lontano 1972/’73, in una scuola periferica di Settimo Torinese, era un ragazzino che oggi definiremmo incontenibile, ipercinetico, provocatorio nei confronti degli insegnanti e aggressivo con i compagni, in particolare con Carmelina (di lei abbiamo già parlato) e Tiziana (una bimba che rimase muta fino alla quinta classe), due bimbe votate ad assumere il ruolo delle vittime essendo così fragili ed indifese. Aveva la testa rasata ed era pieno di cicatrici, chiaro segno delle violenze subite. Era giunto in quella scuola dopo essere stato in collegio per anni. Parlava poco e malamente, aveva difficoltà ad articolare i suoni come se avesse una costrizione in gola. Tuttavia veniva “rispettato”, poiché con le sue aggressioni frequenti incuteva timore e sottomissione ai più deboli. Le sue difficoltà linguistiche rendevano impossibile creare gruppi di discussione per rielaborare insieme i suoi comportamenti, le sue emozioni, come quelli di altri bambini. Fu per questo motivo, dopo l’ennesimo furto, che si pensò di presentare un progetto di educazione teatrale all’assessorato all’istruzione di quel comune. Fu coinvolto l’allora nascente Laboratorio Teatrale di Settimo guidato da Gabriele Vacis, oggi affermato regista. Si iniziò un lavoro di drammatizzazione, che durò tre anni scolastici, con incontri settimanali, associato ad un laboratorio di pittura, che era già stato allestito dagli insegnanti per dare a tutti i bambini una opportunità espressiva fortemente coinvolgente sul piano emozionale. Ci volle del tempo, ma Antonio imparò a comunicare, utilizzando il corpo, imparando a modulare la voce, dipingendo in modo straordinario i suoi paesaggi interiori. I suoi dipinti suscitavano la giusta ammirazione dei suoi compagni, gratificandolo questa volta per ciò che sapeva realizzare, per delle capacità da lui stesso ignorate.
Antonio imparò a stare nelle regole, ad avere rispetto delle cose e delle persone, imparò a leggere e a scrivere sebbene con qualche incertezza.
Perché questo esempio?
Semplicemente perché analizzandolo con attenzione è possibile risalire ad alcune modalità educative e didattiche valide allora come ora, valide per prevenire o per affrontare situazioni in cui si verifichino azioni aggressive e violente.
- Innanzitutto si lavorava con una didattica attiva, basata sulle esperienze dirette, cercando sempre di motivare e di suscitare interesse per l’apprendimento;
- venivano adottate, quando non era possibile utilizzare le parole e la discussione, diverse modalità espressive che consentivano di fare, di comunicare, ma anche di incanalare tensioni e vissuti negativi verso comportamenti accettabili;
- si cercava di sostenere la formazione di una immagine positiva di sé, di aumentare la propria autostima attraverso l’accettazione da parte dei compagni;
- veniva dato valore all’apprendimento cooperativo;
- il lavoro di drammatizzazione consentiva a ogni bambino di concorrere alla riuscita di un prodotto finale attraverso l’ascolto dell’altro, il rispetto di regole e di tempi, la fiducia nell’adulto guida;
- gli insegnanti osservavano i comportamenti di tutti i bambini, il loro modo di relazionarsi tra loro e con l’adulto, cercavano di capire prima di essere giudicanti, si davano e davano i “giusti” tempi per raggiungere obiettivi significativi, e sul piano dello “stare nelle regole”, e sul piano degli apprendimenti. Il fatto che Antonio sia riuscito ad apprendere, a leggere e a scrivere, dimostra che aver dato spazio all’espressione di sé, e quindi alle emozioni, favorisce anche il processo d’apprendimento curricolare.
MODALITÀ DI INTERVENTO
Torniamo all’oggi e alle modalità per affrontare il fenomeno bullismo, fermo restando che attingiamo anche a quanto abbiamo fin qui evidenziato.
Proviamo a farlo in modo schematico:
- innanzitutto saper osservare per comprendere ed agire con flessibilità, diversificando le proposte didattiche. Un valido contributo può essere dato dalla letteratura, in particolare quella per ragazzi, e dalla visione di film e spettacoli da cui possono scaturire positive discussioni;
- porsi il problema dell’aggressività come un problema “affrontabile”, domandandosi se le difficoltà che si incontrano nella ricerca delle soluzioni non richiamino propri vissuti personali;
- favorire l’autostima ed un’immagine positiva di sé. Ciò richiede il saper valorizzare ogni aspetto positivo, ogni successo che consenta il giudizio positivo da parte del gruppo;
- pattuire poche regole, chiare, evidenti, coerenti;
- promuovere una disciplina “induttiva”, volta a favorire rapporti positivi tra allievi, piuttosto che una disciplina “punitiva” che considera solo l’atto deviante e non ciò che è migliorabile;
- favorire l’alfabetizzazione emotiva unitamente all’alfabetizzazione morale con periodici gruppi di discussione, dove emozioni negative come la paura, la rabbia, la collera, possano essere riconosciute, nominate[i] per poter essere in seguito maggiormente gestite e controllate e dove sia possibile riflettere sul valore delle regole adottate per vivere insieme;
- in ogni classe, fin dalla scuola dell’infanzia, con la dovuta gradualità occorre sviluppare il pensiero riflessivo al fine di formare il pensiero morale; ogni gruppo classe dovrebbe divenire luogo di discussione su problemi etici, su situazioni difficili, con soluzioni non univoche, che implicano il confronto sull’osservanza di norme sociali, ma anche giuridiche, quando l’età lo consente;
- perseguire l’apprendimento cooperativo (il cooperative learning) e promuovere ogni attività che possa sviluppare atteggiamenti prosociali (il role-playng ad esempio può aiutare a “sperimentare” e comprendere le ragioni dell’altro) e l’assunzione di responsabilità individuali per il raggiungimento di un obiettivo comune;
- sviluppare il confronto tra insegnanti, anche di classi e di scuole diverse, per accogliere ogni positivo contributo alla comprensione dei problemi e trovare comuni atteggiamenti e comuni strategie di intervento;
- favorire incontri con le famiglie sulle questioni relazionali, sui problemi come appunto quello della disciplina, che spesso li mettono in difficoltà, riservando incontri con i genitori degli alunni direttamente coinvolti in fenomeni di bullismo (del bullo come della vittima) nell’ottica della comprensione e dell’aiuto reciproco.
- Ovviamente ci rendiamo conto che apposite risorse finanziarie, oggi decisamente decurtate, potrebbero favorire, incontri con esperti rivolti a tutti gli attori scolastici per favorire l’approfondimento del fenomeno, incentivare le attività ( come quelle sportive- sempre che non esasperino la competizione e l’agonismo- di gioco, di esplorazione dell’ambiente…) per le quali il rispetto delle regole diventa condizione indispensabile.
- Il non disporre del necessario limita le azioni positive. È un dato di realtà. Tuttavia occorre non cadere nella trappola della delega ad altri di ciò che è possibile realizzare. Non è una questione di buona volontà; è semmai una questione di responsabilità educativa, che si esplica sempre, in qualsiasi contesto si operi.
- “Se non ora quando?” (titolo di un libro di Primo Levi) è la domanda che vorremmo che ogni insegnante si ponesse, quando di fronte alle difficoltà teme di poter sbagliare, di non aver abbastanza risorse o competenze per intervenire.
- C’è sempre un modo per affrontare la realtà: basta cercarlo, meglio se con l’aiuto di altri. E gli esempi in tal senso sono molti. Ce lo conferma Dario Ianes, che con Tullio de Mauro ha curato un recente testo di positive esperienze; riferendosi agli insegnanti e al loro impegno dice:
In questo momento della notte chi ci crede ancora sta scrivendo una scheda per qualche alunno o ritagliando figurine per una storia oppure cercando in internet notizie aggiornate per la classe. Chi ci crede ancora si porta il lavoro dentro il bagno di casa, certo come accade anche per molti altri professionisti, ma il suo “lavoro” gli appare come un volto, un nome.
- Gli insegnanti hanno risorse che trovano dentro di sé, che autocostruiscono giorno dopo giorno, piuttosto che rimanere ad aspettarle imprecando o lamentandosi.