di Rosa Armocida e Elvio Mattalia
Poiché I bambini e gli adolescenti nel loro percorso scolastico hanno bisogno di relazioni “sufficientemente buone”, sono necessari insegnanti “sufficientemente buoni e competenti”, che padroneggino ciò che insegnano, ma che, soprattutto, sappiano realizzare un contesto affettivo-comunicativo-relazionale, capace di favorire il processo di individuazione (secondo la definizione di Carl Gustav Jung), la costruzione di un’identità sempre più autonoma e consapevole. Occorrono insegnanti che diano il giusto spazio all’educazione cognitiva ed emotiva, dei sentimenti degli alunni (e propri), che siano capaci di trasformare la classe, di cui sono responsabili, in una comunità dove si cresce nella reciproca accettazione e si apprende nell’incontro e nel confronto tra individui, uguali e diversi nello stesso tempo, che procedono verso mete comuni a volte con gli stessi tempi, a volte con tempi diversi, altre fermandosi un po’ per riprendere fiato.
Afferma Sigmund Freud:
La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa dell’inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita .
Un gioco “serio”, dove la fatica di chi cresce e di chi aiuta a crescere non dovrebbero essere l’unico tratto della relazione educativa. Ogni educatore dovrebbe ricordarsene, munendosi di pazienza e della capacità di sapere attendere fiduciosi nella possibilità che ogni individuo possa nel tempo esprimere il “meglio” di se stesso.
Cerchiamo allora di descrivere più dettagliatamente gli atteggiamenti che, a nostro avviso, devono essere assunti dagli insegnanti.
ASCOLTARE
Come dice G. Bollea l’ascolto è «Un procedimento complesso, affascinante e gioioso, che costituisce la base della nuova educazione» .
È essenziale che si trovi lo spazio “mentale” per accogliere quanto gli alunni comunicano esplicitamente o in maniera implicita con il loro corpo, la loro gestualità, con la loro modalità di affrontare un problema, di risolvere un conflitto, il loro modo di accostarsi agli adulti, ai compagni.
Occorrono spazi e tempi per gli incontri a due, con modalità “riservata”, per rispettare il bisogno di protezione che un allievo può esprimere in un preciso momento o come sua costante relazionale, per incontri di gruppo o assembleari dove sia possibile esprimersi, accogliere osservazioni, imparare a non sentirsi soli.
Nello stesso tempo è fondamentale che l’insegnante riconosca le proprie emozioni, i propri sentimenti, sappia gioire dei propri risultati ed accettare la frustrazione dell’insuccesso. È importante che sia consapevole della risonanza emotiva che i diversi comportamenti dei suoi alunni producono dentro di lui a tal punto da condizionare non solo le dinamiche relazionali con e tra gli alunni, ma anche le diverse scelte educative e le diverse metodologie didattiche. Ciò significa poter includere nella mente non solo ciò che si deve insegnare (i programmi, i contenuti, gli obiettivi), ma l’attenzione costante a come, nell’imparare, gli alunni costruiscono non solo il loro sapere, ma il loro modo di essere, di occupare la loro porzione di mondo.
L’insegnante, specialmente nella scuola dell’infanzia e primaria, deve assumere necessariamente una funzione simile a quella genitoriale (si intende qui una funzione mentale), accogliere e contenere anche le emozioni e i sentimenti più distruttivi e restituirli “bonificati”, perché i bambini possano essere capaci di modulare e tollerare la sofferenza e il dolore mentale, che, come esplicita la scuola psicoanalitica, accompagnano ogni processo di apprendimento.
Sappiamo, infatti, e ciò vale per ogni esperienza, che l’affrontare “il nuovo”, sia esso una conoscenza da acquisire o una relazione da costruire, può mettere in “gioco” il diverso grado di autostima, la paura del rifiuto, dell’abbandono e dell’insuccesso, il riconoscimento delle proprie capacità come il disconoscimento delle stesse, il desiderio di mettersi alla prova, la sollecitazione dello scontro per essere visibili, il saper aspettare e tollerare l’incertezza del non sapere. Si tratta, perciò, di “dare parola” con qualsiasi modalità (dall’espressione verbale alla espressione grafica, pittorica, psicomotoria, drammatica…) alle tante frustrazioni ed ansie connesse alla fatica dell’imparare.
Mettersi in ascolto dei vissuti emozionali e accogliere le peculiarità degli alunni è condizione sine qua non per favorire l’apprendimento e scongiurare la routine didattica che diventa sterile e burocratica. Emozioni e sentimenti (rabbia, collera, paura, invidia, tristezza, disistima, inadeguatezza… ma anche empatia, compassione, amore…) vanno considerati, ed elaborati, affinché l’insegnamento assolva il suo compito formativo; compito che, necessariamente, va differenziato secondo l’età cronologica e mentale dei propri alunni (prestando ad ogni età tutta l’attenzione necessaria) . L’ascolto, ad esempio, di ciò che i ragazzi e le ragazze nella fase preadolescenziale ed adolescenziale (particolarmente complessa) hanno da raccontarci è fondamentale per orientarci rispetto alle scelte didattiche da effettuare, per aiutarli ad accettare la fatica dell’imparare e ad affrontare gli ostacoli che incontrano nel processo di sviluppo della propria autonomia. Troppi ragazzi e ragazze oggi vivono nella noia, nel disinteresse per ciò che la scuola propone, alimentando in loro sfiducia, insicurezza, mascherate spesso da atteggiamenti aggressivi o al contrario da passività morbosa.
Pietropolli Charmet relativamente agli studenti delle scuole superiori, ma ne riscontriamo l’esistenza anche in precedenza, riferendosi a ciò che pensano i nostri adolescenti dice:
La loro impressione è che la scuola sia vecchia non solo nei metodi e nell’uso dei sussidi, nello stile relazionale e nella definizione degli obiettivi, ma sia molto conservatrice nel senso che si interessa devotamente del passato, getta sul futuro uno sguardo distratto, spesso solitamente disfattista […] .
Ascoltare i propri alunni di ogni età, significa prestare loro davvero attenzione, scoprire ciò che già sanno, ciò che li incuriosisce e li può motivare ed appassionare nella scoperta di nuovi mondi.
ACCETTARE-TOLLERARE
È fondamentale avere la consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista, per dare spazio all’altro, alla sua rappresentazione del mondo e di se stesso. Potremmo definire questo un atteggiamento “tollerante” senza alcuna accezione moralistica: il solo possibile per realizzare una comunità educativa.
Dal nostro punto di vista, in primis, occorre accettare la diversità che ogni allievo porta con sé appena varca la soglia della sua aula ed entra in un contesto educativo.
(…)
Ampliando, quindi, il discorso, possiamo affermare che uno dei tratti caratterizzanti un adulto-educatore è appunto la capacità di tollerare la diversità dell’altro rispetto alle proprie aspettative ed ai propri modelli di riferimento, che hanno sempre a che fare non solo con ciò che si è imparato sui libri scolastici, con quel breve tirocinio che dovrebbe preparare alla professione, o nei corsi di aggiornamento e formazione, ma soprattutto con le esperienze di vita che lo hanno formato, facendolo diventare proprio quel particolare adulto.
In una qualche misura questo nostro discorso rimanda al fatto che il docente debba esercitare una certa dose di tolleranza nei confronti di se stesso, dei propri errori, delle proprie lacune. Nello stesso tempo pensiamo che debba esercitarsi alla “leggerezza dell’essere un educatore” (parafrasando il titolo di un romanzo di Milan Kundera).
Pensiamo non solo ad uno sguardo benevolo nei confronti di se stessi, ma anche alla consapevolezza che le “verità” vanno ricercate insieme ai propri alunni, che i saperi che si acquisiscono portano ad approfondimenti, richiamano altri saperi, poiché la realtà che viene indagata non è mai statica e definita una volta per tutte.
Brano tratto dal libro di Rosa Armocida e Elvio Mattalia, Scuola Contromano – Armando Editore
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Il bisogno di realizzazione del proprio sé e della propria identità
La scuola è il campo privilegiato in cui si costruisce ogni giorno la società. Gli insegnanti e gli educatori si relazionano con bimbi e adolescenti portatori di una doppia complessità, quella legata all’età evolutiva e quella dei propri vissuti particolari, con tutte le mille differenze che portano con se. In questo senso forse si dovrebbe andare “oltre” la tolleranza, nel suo significato etimologico, e accettare che ogni identità non è monolitica, ma plurale e in costante cambiamento, non rinchiudibile in una definizione unica e monolitica, ma fluida e dai confini aperti. Non si tratta di accettare formalmente una “diversità”, ma di comprendere in primis se stessi come “diversità”. Nella scuola microcosmo di società in cui le spinte a creare identità forti e uniche sono sempre maggiori, si tratta di utopia o necessità?
Francesca
Mi viene in mente una parola: cooperare cioè operare insieme con altri, contribuire attivamente al conseguimento di un fine. Questo vuol dire che per raggiungere il traguardo fissato dalla scuola, esso deve essere condiviso con l’allievo. Come? Lavorando insieme, ciascuno apportando il proprio contributo. Altrimenti l’educazione è sempre unidirezionale da parte dell’insegnante all’allievo.
Paola