di Rosa Armocida e Elvio Mattalia
Il bisogno di realizzazione è di primaria rilevanza poiché può essere inteso come l’unica e autentica motivazione del comportamento umano. Sottende e persegue la costruzione del sé e dell’identità: obiettivi “impegnativi”, mai del tutto definitivi, poiché, come già ampiamente dimostrato da Erickson, si realizzano e procedono con la maturazione dell’individuo e coinvolgono l’intero arco della vita.
Su di essi sono state elaborate molte e diverse interpretazioni. Noi proveremo ad esprimerci con le nostre parole e con le parole di autori per noi significativi. Perciò iniziamo con la seguente considerazione.
Il Sé, in riferimento al linguaggio psicologico, e psicoanalitico in particolare, esprime la persona “intera” intesa come totalità che ingloba il corpo e la mente, la dimensione inconscia e quella conscia, di cui l’io è espressione razionale; è “sistema” complesso e dinamico, caratterizzato da stabilità/instabilità, da rielaborazioni e aggiustamenti interni ed esterni nella ricerca di sempre nuovi equilibri.
Il Sé è l’individuo stesso ed è al contempo il modo con cui un individuo percepisce se stesso; è indistinguibile dal senso di sé. L’autocoscienza introspettiva, l’autoconoscenza e la ricerca della propria realizzazione ne sono le condizioni necessarie, imprescindibili, inseparabili. L’identità, allora, prendendo a prestito le parole di Giovanni Jervis è in estrema sintesi «ricono-scersi ed essere riconosciuti» .
Siamo, infatti, soggetti aperti al cambiamento, e allo stesso tempo siamo soggetti che non cambiano, capaci di percepire la singolarità del nostro essere, le nostre caratteristiche stabili, le inclinazioni di base, quelle che ci fanno dire “questo sono io” distinguibile dagli altri, e nello stesso tempo dagli altri riconosciuto.
Molto a proposito l’antropologo Francesco Remotti, trattando il tema dell’identità dal suo punto di vista, ci offre la seguente lettura:
L’identità di una persona, di un “Io”, è considerata come una struttura psichica, come un “ciò che rimane” al di là del fluire delle vicende e delle circostanze, degli atteggiamenti e degli avvenimenti, e questo rimanere non è visto come una categoria residuale, bensì come il nocciolo duro, il fondamento perenne e rassicurante della vita individuale . (F. Remotti, Contro l’identità)
Ed ancora con Giovanni Jervis possiamo dire che
[…] se pure diamo per vero che ciascuno di noi, alla maniera di un attore… recita tante parti nella vita quotidiana… è anche vero, o almeno dovrebbe essere evidente che in ogni caso l’identità individuale persiste attraverso tutti questi ruoli, e si ritrova ben riconoscibile in ciascuno di essi . (G. Jervis, La conquista dell’identità. Essere se stessi, essere diversi)
Il riconoscersi, però, non è una operazione semplice come disporre ed esibire una carta d’identità con i propri tratti distintivi valida per la vita; è un processo che implica la “percezione” di se stessi, a partire dalla propria corporeità e dall’appartenenza di genere, e rimanda all’idea, all’immagine che si ha di se stessi, alla configurazione degli aspetti, integrati tra loro, che costituiscono il proprio mondo psichico. Si tratta di un processo di costruzione/accettazione di sé nel quale interviene la dimensione inconscia, con la sua potente attività simbolica, e quella razionale, progettuale, ordinatrice. Necessita, infatti, della continua e progressiva attività autoriflessiva, ma anche, come ci richiamano autori come Duccio Demetrio e Jerome Bruner, della memoria cosciente, narrativa e “autobiografica” e di quella inconsapevole, interiorizzata, sedimentata negli anni, che ci fa percepire stabili nel tempo e nello spazio, contribuendo alla nostra integrità, al nostro equilibrio psichico. Narrarsi implica rivolgere lo sguardo verso il passato, per proporsi nel presente, descrivendo come si è o si ritiene di essere in quel dato momento della propria storia, esibendosi, mostrandosi per averne riconoscimento, conferma e accettazione dagli altri, con i quali si è in vario modo in costante dialogo .
In merito a quest’ultima affermazione queste le parole di Mario Trevi:
[…] da un punto di vista antropologico l’uomo è l’animale che, per diventare adulto (vale a dire essere responsabile e inserirsi-se possibile creativamente-in una cultura) ha bisogno di una serie ininterrotta di dialoghi. All’inizio c’è il dialogo con la figura materna. Contemporaneamente a questo si sviluppa, come una sorta di controcanto, il dialogo con la figura paterna o eventualmente un suo sostituto. Con l’emergere della parola le forme del dialogo si moltiplicano: i coetanei, i congiunti più o meno lontani, i partner talvolta imprevedibili dei giochi. Poi i dialoghi plurimi connessi alla scolarità, i dialoghi estremamente intensi da un punto di vista emotivo della prepubertà e della pubertà. E così via. Si intende che ognuno di questi dialoghi ha una specifica connotazione affettiva che ne fonda il carattere univoco e insostituibile. Idealmente è con questa serie di dialoghi che il bambino diventa psichicamente adulto e-diciamo così-adatto ad una vita completamente responsabile . (M. Trevi, A. Fedrigo, Dialogo sull’arte del dialogo)
Con altre parole possiamo ampliare, ricollegandoci a quanto abbiamo cercato di dimostrare, quest’ultimo concetto, aggiungendo che nella costruzione dell’autobiografia del sé
[…] entra in gioco, contemporaneamente, il legame fra identità e affettività, cioè il bisogno che il bambino ha (e che in fondo ognuno di noi mantiene per tutta la vita) di sapere che la propria identità, così com’è descritta e raccontata, risulta chiara e coerente e valida nelle sue caratteristiche, ed è fondamentalmente accettabile, e degna di ricevere amore .
Il “dialogo”, quindi, diventa condizione imprescindibile, una necessità non trascurabile per la realizzazione di se stessi. Per dialogare, è stato sopra evidenziato, occorrono perlomeno due soggetti a confronto, a volte in posizione simmetrica e paritaria, a volte in posizione asimmetrica, come avviene nel rapporto bambino/adulto. Il dialogo implica un io, un tu e un noi.
Tutto ciò per ribadire che non vi è realizzazione di sé e della propria identità se non nel mondo, nella dimensione relazionale, che è sempre diversamente colorata affettivamente, e nella cultura con i suoi linguaggi e modalità comunicative, credenze, valori, simboli. Determinanti sono la qualità delle relazioni, il clima affettivo in cui si dialoga, ci si confronta, ci si specchia e rispecchia e a volte ci si scontra per affermare il proprio Sé, la propria personalità. Ugualmente rilevanti sono i modelli che gli adulti impersonano, i valori che esprimono, le aspettative che riversano sui bambini di cui si occupano, interferendo nel processo di realizzazione di una personalità, in cui possono prevalere tratti originali e creativi (“vero” Sé) oppure tratti di una personalità ambigua, confusa, incerta (“falso” Sé), provocando una condizione psichica di profonda sofferenza, costringendo ad assumere, a volte, una maschera compiacente in rapporto alle esigenze dell’altro, al contesto culturale e valoriale di vita.
Il ruolo dell’adulto è determinante anche e soprattutto quando per ragioni diverse esplica un ruolo vicariante rispetto alle figure genitoriali.
(…) Del resto è ampiamente dimostrato che i bisogni di amore, approvazione e rassicurazione viaggiano in parallelo con l’imprescindibile bisogno di realizzazione. Già Maslow fin dagli anni ’50 aveva posto all’apice di una scala rappresentativa dei bisogni individuali fondamentali il bisogno di realizzazione di Sé e di autostima che connota in contemporaneità ogni fase evolutiva seppure in misura diversa.
A questo punto del nostro discorso sorge la domanda retorica, ma pur sempre necessaria: “Gli insegnanti, gli educatori tutti, tengono conto di tale primario bisogno nella misura dovuta? Sono interessati e capaci di riconoscere i tratti distintivi dei loro allievi, i loro talenti, le loro dimensioni cognitive e comportamentali caratterizzanti?”.
Pensiamo che molti insegnanti ne abbiano consapevolezza e con le risorse di cui dispongono ne tengano conto a livello progettuale, organizzativo e didattico. Lo dimostra la qualità di molti segmenti dell’istituzione scolastica. Tuttavia, possiamo affermare che nella generalità delle situazioni educative, soprattutto nella scuola secondaria, non se ne tenga abbastanza conto (non tutto il consiglio di classe è in grado di mettere in atto pratiche costruttive in tal senso) o se ne neghi la necessità, pensando che spetti ad altri darvi risposta (in primis alla famiglia). Afferma Galimberti:
[…] Se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male a scuola, l’identità che è il bisogno assoluto per ciascuno di noi, si costruisce altrove, in tutti quei luoghi, scuola esclusa, dove è possibile ottenere riconoscimenti […] . (U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani)
D’altro canto l’atteggiamento di scarsa o nulla considerazione per la dimensione relazionale emotiva ed affettiva, così fondamentale per la scoperta e attuazione del sé, da parte della scuola, che si pone come obiettivo prioritario di istruire piuttosto che educare, non tiene conto di quanto la ricerca psicologica, delle neuro-scienze e della psico-biologia ha dimostrato relativamente all’apprendimento anche nella dimensione cognitiva .
Sappiamo per certo che lo sviluppo del pensiero affonda le sue radici nelle emozioni e negli affetti e che il diverso modo di essere intelligenti dipende anche dalla qualità delle relazioni (non solo quelle primarie), dalla possibilità di esprimere le proprie emozioni, di elaborarle, di indirizzarle. Nonostante ciò si continua a rimanere inadempienti relativamente alla formazione iniziale e continua dei docenti di ogni ordine scolastico sulla loro fondamentale “competenza relazionale”.
“Agli insegnanti piace insegnare; a loro non piacciono i bambini” diceva spesso una collega psicologa per dimostrare la mancanza di comprensione empatica di quei bambini le cui difficoltà di comportamento, e quasi sempre di apprendimento, scaturivano da problematiche affettive relazionali mai risolte.
Ma la realtà è ancor più complessa.
Si può essere buoni conoscitori della propria materia e non essere capaci di “porgerla”; ed è altrettanto evidente che non a tutti gli insegnanti piace insegnare. Per molti di loro è un mestiere di ripiego; molti insegnano discipline nelle quali non hanno una preparazione specifica o adeguata, e per le quali non provano interesse e piacere. Come appassionare i propri studenti se non si prova passione e piacere nel trasmettere conoscenze? E, in termini più generali, se non si è capaci di adeguare la proposta educativa e didattica al percorso di crescita di ogni alunno nella costruzione dell’identità?
Secondo Guido Petter, uno dei nostri riferimenti negli anni di insegnamento, compito della scuola è quello di sviluppare un’idea di se stessi il più possibile realistica, positiva e dinamica.
Realistica perché coincidente con il vero sé, perché il soggetto in formazione possa affrontare ogni nuova esperienza allontanando la frustrazione dell’insuccesso.
Positiva perché caratterizzata da fiducia e da ottimismo per poter affrontare situazioni nuove che richiedono di esprimere capacità un po’ superiori rispetto a quelle che già si possiedono.
Dinamica perché l’idea che si ha di se stessi non sia “rigida”, ma disponibile al cambiamento, ad acquisire abilità, conoscenze, atteggiamenti che consentono di migliorare il proprio rapporto con il fuori da sé .
Brano tratto dal libro di Rosa Armocida e Elvio Mattalia, Scuola Contromano – Armando Editore
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