a cura di Emilia De Rienzo
Il 28 settembre 1959 Hanna Arendt, in occasione del conferimento del premio “Lessing” di Amburgo, pronuncia il suo discorso: “L’umanità in tempi bui” che è diventato un bel libretto edito da Raffaello Cortina.
Questo premio era per lei il suo primo riconoscimento ufficiale. Il contenuto di questo discorso ricalca un tema a lei caro che caratterizza quasi tutti i suoi scritti: come comprendere “la catastrofe storico politica del novecento” che era stata per molti aspetti anche la tragedia della sua vita. E in particolare la filosofa si chiede se esistano dei modi di essere umani, di vivere umanamente in quei periodi storici che possiamo chiamare con Brecht “tempi bui”.
La Arendt sottolinea come proprio il terrore, elemento fondante di ogni regime, annienti i rapporti inter individuali e quindi distrugga la politica quale condizione di vita comune. Il campo di concentramento è il luogo simbolo di ogni meccanismo totalitario, rende visibile di quale orrore sia capace l’essere umano: la Arendt ci indica, quindi, come indispensabile alternativa la «riscoperta della politica», non quella istituzionale e dei palazzi del potere, ma quella che coinvolge ciascuno di noi, nella misura in cui sentiamo il bisogno di vivere insieme, di «essere in comune». Per questo è necessario impegnarsi a conquistare quegli spazi di libertà, senza i quali non si ricostruisce la “polis” dell’uomo. Impegnarsi appunto anche in tempi bui, evitando quella che la Arendt chiama “l’emigrazione interiore”; in Germania, infatti, (ma non solo) c’erano state persone che “si comportavano come se non appartenessero più a quel paese, che si sentivano come emigrati (…) che si erano ritirati nell’invisibilità del pensare e del sentire”
In questa direzione la filosofa ripercorrendo il pensiero del filosofo illuminista Gotthold Ephraim Lessing, ri-legge il concetto di amicizia evidenziandone il valore politico, quale ci proviene dai Greci, in particolare da Aristotele. Il filosofo, infatti, parla dell’amicizia tra i cittadini come “una delle condizioni di benessere della città”, e la filosofa aggiunge:
“per i Greci l’essenza dell’amicizia consisteva nel discorso. Essi sostenevano che solo un costante scambio di parole poteva unire i cittadini in una polis […] Chiamavano filantropia questa umanità che si realizza nel dialogo dell’amicizia, poiché essa si manifesta nella disponibilità a condividere il mondo con altri uomini”.
L’amicizia presuppone, quindi, la nozione di umanità e insieme il radicarsi nel mondo. Dove si realizza, infatti, un’amicizia pura lì si “produce una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano”.
“Oggi siamo abituati – continua la Arendt – a vedere nell’amico solo un fenomeno di intimità, in cui gli amici aprono la loro anima senza tener conto del mondo e delle sue esigenze”.
Per la filosofa il colloquio intimo in cui gli individui parlano di se stessi deve aprirsi al dialogo che
“per quanto intriso del piacere relativo alla presenza dell’amico si occupa del mondo comune, che rimane ‘inumano’ in un senso del tutto letterale finché delle persone non ne fanno costantemente un argomento di discorso tra loro”.
L’amicizia, quindi non è per la Arendt separata dal mondo, ma è:
«essere e pensare con la mia propria identità dove io non sono; non generica immedesimazione, né accattivante empatia, ma dal sé fare spazio all’altro, con il proprio concreto esistere intraprendere il viaggio politico e pubblico verso la diversità in me e fuori di me, accettando il cambiamento di ciascuno /a che ne deriverà”.
La filosofa, quindi, auspica per tutti «il dono dell’amicizia, con l’apertura al mondo, infine con l’amore genuino per il genere umano». Questo modo di concepire la nostra “umanità” ci permette di “dialogare con un maomettano convinto, un ebreo pio o un cristiano credente”.
E’ significativa questa visione dell’amicizia, ci indica un percorso, una direzione verso cui andare per ritrovare significato e senso da dare alla parola politica. Tutti abbiamo degli amici e delle amiche carissime con cui condivide molto della nostra vita. Certamente ci sono stati vicino nei momenti difficili in cui avevamo bisogno del loro sostegno, ma la parola acquista più forza e senso quando condividiamo l’impegno civile insieme ad altri: possiamo discutere i problemi, cercare insieme risposte nella certezza che non possono che essere parziali, e il dialogo può anche diventare a volte acceso, ma sempre rispettoso delle idee dell’altro che vengono sempre prese in seria considerazione come alternativa o complemento della propria. posizione.
Solo questo confronto continuo ci rende davvero più “umani” in un mondo dove proprio come dice la Arendt “ci confrontiamo costantemente con quelli che sono sicuri di avere ragione”. Ci rende più umani perché il confronto ci stimola, ci incoraggia ad “agire nel mondo” ognuno nel proprio ambito e nelle proprie possibilità, ci fa uscire insomma da una posizione di indignazione passiva, ci immunizza da quell’atteggiamento che ci fa sentire “impotenti” e lascia quindi libera strada proprio a chi vorremmo combattere.
Ed è proprio questa amicizia che ci invita all’impegno, ma prima ancora alla discussione rispettosa che ci stimola a ritrovarsi per sentirci partecipi, attivi anche in momenti in cui l’orizzonte sembra chiuso e buio.
E’ importante allora ritrovare luoghi dove ci si possa parlare, spazi dove si impari l’ascolto, il dialogo, il confronto.
Come dice Lacan è importante
“Aprire spazi, margini perché abbia luogo quell’apertura che noi siamo, perché l’apertura possa darsi e lì allora darsi la parola”.
“Una democrazia che vuole preservarsi dalla degenerazione demagogica deve curare nel massimo grado l’originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle mode. L’originalità che non deve essere concepita come stramberia, amore estetizzante della stravaganza ma, etimologicamente, come seria capacità di dare inizio, origine a un progetto, a un rinnovamento che produce vita nuova e combatte la passiva e animalesca ripetitività”.
Gustavo Zagrebelsky